27 GIUGNO 2020 – LIDO LUISE PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI ALFONSO CAPRIO “PORTO SCHIAVETTI (POESIE E MIGRANTI)” – EUROPA EDIZIONI.

Castel Volturno (Matilde Maisto) – Una splendida mattinata sul mare quella di sabato u.s. con la compagnia di persone che amano la cultura. Infatti nell’ambito delle attività Regione Campania per la promozione della cultura, la APS “Le Piazze del Sapere – Aislo Campania” ha proposto e presentato una idea-progetto per la realizzazione de Le Piazze dei Saperi e dei Colori “Letture di Gusto. Libri, cibo, ambiente, territorio. Per ripartire con la cultura. Viene così ripresa e rilanciata una esperienza già organizzata negli anni precedenti a Castel Volturno, in collaborazione con istituzioni ed associazioni del terzo settore.

A dare inizio all’evento è stata la presentazione del libro di Alfonso Caprio “Porto Schiavetti (Poesie e Migranti)” – Europa edizioni.

E’ una meravigliosa silloge che rispecchia un movimento emotivo in crescendo, raggiungendo un picco e ridiscendendo, proprio come  le onde che travolgono e spesso uccidono. Sono poesie brevi, con versi minimi, in cui l’essenzialità sembra rispecchiare la voce sommessa di questi ultimi travolti dal comune sentire più che dagli eventi.

La poesia, dunque, diventa non solo un modo per non dimenticarli, ma addirittura per tenerne viva la memoria e la presenza, con la speranza che tutto ciò possa incentivare un cambio di rotta in questo mare di desolazione umana.

Nella mattina di ieri sono state lette alcune meravigliose poesie, ma molto rilevanti e a tratti anche commoventi le recensioni di alcuni cari amici di Alfonso, tra cui il giudice Francesco  Nuzzo che dice: “Alfonso mi dona un libretto di poesie sui migranti, e aggiunge: “Scrivi una diecina di righi”. Il generico invito sottintende un giudizio sul lavoro compiuto, e rispondo con un sorriso performativo. Intrigante è il titolo della raccolta: Porto Schiavetti,  un toponimo indicativo di una riva alla foce del Volturno, dove venivano sbarcati gli schiavi in epoca romana. La dicitura apre, a un tempo, squarci  di un mondo pieno di sofferenze, illusioni, paure, speranze, e tant’altro.     

Leggo con curiosità i brevi componimenti, schizzi di esperienze umane che Alfonso Caprio conosce direttamente, senza mediazioni o fisime ideologiche. Egli appare subito unilaterale nel senso migliore quando, filtrata dall’afflato poetico, narra la drammatica avventura di persone costrette a lasciare la patria per sfuggire ai disagi della guerra e della fame. Il carico di patimenti, legati a una sfida che ha per posta la vita o la morte, è reso con partecipata sensibilità sin dall’avvio del doloroso peregrinare.

Anche lo spuntare

di un singolo fiore

nel deserto è un inno

alla vita e alla speranza

per un futuro

migliore e diverso.

Quindi partiamo.

(LA PARTENZA, II)

I momenti della traversata del Mediterraneo appaiono scanditi secondo la liturgica replica delle angosce di chi, nella prospettiva di un sogno spesso impossibile, s’affida a trafficanti privi di scrupoli. Il poeta avverte l’amara condizione dei disperati naviganti, dei quali l’attesa del domani, davvero precaria su pericolanti imbarcazioni, trova udienza inaspettata nel mare immenso. 

Il vento di maestrale

ascolta le gioie della vita.

Il vento di tramontana

ode i lamenti del mondo.

Il vento di libeccio

travolge la dolcezza

delle stanche storie.

Il vento di bonaccia

mescola il sussurro

di un mondo senza futuro.

(L’AFFONDO, I)

Ma egli vuole, sa, esprime un impegno non condizionato da compiaciuta solidarietà: la proposta di Caprio è l’accettazione consapevole dell’altro.  

Non ha importanza

da quale continente,

nazione, regione,

provincia, città,

paese o villaggio

tu provenga, o uomo,

dall’Africa o da Castel Volturno.

Quello che per me

è  importante

è che su di questa Terra

siamo tutti uguali

bianchi, neri, rossi e gialli.

Perché tutti siamo della

della stessa razza umana.

(L’APPRODO, X)

Già, lo sosteneva pure Gaetano Filangieri, tenace assertore dei diritti dell’uomo, che si acquistano con la nascita, mentre la società e le leggi debbono difenderli, poiché sono essenzialmente in noi, formano la nostra esistenza politica come l’anima e il corpo formano l’esistenza fisica. Nessuno di essi ci può essere tolto senza sciogliere, in pari misura, il nodo che ci unisce allo Stato. Il loro possesso non va mai  interdetto:  soltanto l’esercizio di questi diritti, per un bisogno urgente, inevitabile ed universale dell’intero corpo sociale, è suscettibile di sospensione. 

Qui concludo, giacché il lettore troverà nella lettura diretta dei testi gli ulteriori motivi di riflessione sull’attuale diaspora all’interno del continente nero. E sulla indifferenza dei signori del potere per il maggior problema della società moderna, chiamata a rendere conto dei passati errori.

11 settembre 2019 (Francesco Nuzzo).

Un’altra recensione bellissima è stata scritta e letta dallo scrittore, giornalista, navigatore Vittorio Russo il quale dice: Le poesie di Alfonso Caprio sono per me un costante Dialogo fra la Spiritualità e il Mondo. Uso le lettere capitali per quella speciale connotazione che mi piace dare alle parole quando smarginano dalla loro essenzialità semantica. Perché le parole nella poesia di questo autore si fanno semeia, segno, punti di riferimento, quasi pietre miliari che fissano valori altri che quelli propri del raccontare. Le parole qui non appartengono al curato linguaggio, alto, riverberante, della poesia aulica; il linguaggio in “Porto Schiavetti” è soprattutto essenzialità, pensieri destinati a uno scopo, quello di sollevare curiosità e farsi musica attraverso il suono.

Da tempo la scrittura poetica di Alfonso Caprio, se posso dirlo con l’umiltà di chi legge senza cercare riferimenti a tutti i costi, ha una crudezza che è l’essenza vera del narrare poetico. Anche perché la sua poesia non rassomiglia a nessun’altra poesia che io conosca.

Parlandomi di questo suo lavoro, l’autore intese orientarmi verso un modo di intenderlo nella prospettiva dell’ermetismo. Ecco, una volta tanto, io che contesto gli interpreti degli autori che sanno quello che l’autore non sa di sé, non ravviso nessun profilo ermetico nella sua versificazione. Nella sua scrittura c’è l’originalità di un cantore timido, di Lino, di Tamiri, di Orfeo, di un rapsòdo che chiude gli occhi per vedere, come i grandi poeti veggenti, tutti ciechi, della leggenda greca e di Rimbaud nel simbolismo francese di inizi Ottocento.

Ecco allora, per ritornare ai termini di sopra scritti con lettere capitali: il dialogare di questo autore col mondo non è una pacifica parabolé, cioè quel parlare da vicino, con amicizia, con calore. No, dialogo, come l’etimo della parola ricorda, in queste poesie è confronto, è parlare di fronte, diametralmente di fronte, diagonalmente di fronte. Questo è il tipo di dialogo della spiritualità di Alfonso Caprio con il mondo che lo avvolge. Il suo messaggio lancia segnali intorno come certe forme di vita crepuscolari. Sono suoni subliminali che si riflettono come onde radio. Il suo linguaggio ha sfumature armoniche delicate, richiama il sapere misterioso che le parole si portano dietro con la cultura che le ha generate. Queste parole sono il richiamo curato (o d’istinto, non so), di una conoscenza del mondo antico che si fa guida senza bisogni mnemonici.

Le parole. Sono lo strumento di lavoro del pensiero. I greci, il popolo più geniale di tutti i tempi, ne avevano tante a disposizione che nessun’altra lingua ha potuto mai vantare un patrimonio lessicale altrettanto ricco: ottantamila lemmi dei greci contro i quattromila dei latini. Non solo Lucrezio aveva bisogno di mutuare dalla lingua greca termini per il suo De rerum Natura ma, ancora oggi, noi stessi, ricorriamo a forme greche per neologismi che non sappiamo radicare nella nostra lingua.

La poesia di Alfonso Caprio ha suoni che si fanno consonanze e assonanze, espressioni di un dire neologico e di una musicalità lieve che rievoca proprio il duplice registro terminologico della lingua degli Elleni. Per essi quello che la nostra ragione comprende e domina si esprime con suoni melodiosi ed euritmici, quello che la ragione non spiega diventa vibrazione aspra, gutturale, da pronunciare con difficoltà, perciò da evitare. Il fuoco domestico, per esempio, quello del calore degli affetti, è reso in greco con un termine morbido, carezzevole, pŷr, dicevano. Il fuoco degli dèi, quello incontrollabile e misterioso di Zeus, era reso con hyknos, duro, impronunciabile. La poesia di Alfonso Caprio ha la musicalità scorrevole del fuoco domestico, quello che si controlla, quello che riscalda e ravviva i sentimenti. Essenzialmente, però, è quello che accende la riflessione sulle sciagure umane, sul lamento non udito di un bambino con un maglioncino rosso smarrito nell’eternità della morte nel sale di una spiaggia remota…Quanti i temi che affronta Alfonso Caprio nella sua opera! Lascia tracce come piccole fiamme, ma in realtà semina incendi nella rielaborazione che ne fa chi legge. Tracce di piccoli fuochi che richiamano i grandi temi delle meditazioni in solitudine, temi di immaterialità religiosa appena sfiorata da sostantivi di sintesi come speranza, pietà. Anche se a me piace credere che la pietà cui allude l’autore è prima di tutto la pietas latina, quella del pio Enea, quella che traduce l’amore per le proprie radici, per i propri dèi. Quali termini però sono più cristiani di questi? Mi verrebbe di aggiungere anche anima, presente in queste poesie, l’anima frequentata da Agostino, ma di scarsa originalità cristiana. E poi, i colori che si susseguono come i grani di un rosario islamico, mutevoli, docili al tatto, che si possono quasi accarezzare come oggetti di ambra addolciti dal tempo. Ci sono sfumature di rime in questo lavoro di Caprio che fluttuano come nella poesia ecoica di Garcia Lorca, Llanto por Ignacio Sánchez Mejías. Si sente il sapore delle voci e ne rimbalza l’eco in angoli neri della memoria. Quante volte pure, questo aggettivo, nero, nero, nero si riflette senza riverberi, senza vittoria su altri colori. È un nero tuttavia, che fu più lucenti le stelle e più amata la luce, nero pure come la peregrinazione cieca nei recessi della mente. Parole dunque, parole che sanno di fuoco e di tentazione, parole docili e soavi, parole che non hanno calibro, messe lì talvolta per adornare, come faceva d’Annunzio, parole fresche come dolci acque. Sono gli strumenti che domano il pensiero e lo porgono a chi legge, parole sospese in una musicalità sottile come nelle Romances sans paroles di Verlaine.

Mi piace ricordare all’autore che la poesia è un immenso percorso iterativo, un continuo divenire che non conosce pause: è un canto senza epilogo. Soprattutto è un’espressione del sentire che non si spiega con regole, nasce un po’ nella follia e un po’ nell’enigma, eppure è la più lucida delle follie e il più incomprensibile degli enigmi.

Grazie Alfonso Caprio per ricordarci che la follia ci abita tutti, e la poesia che ne è espressione ci concilia talvolta con le asperità del quotidiano, come fai tu con i canti del tuo “Porto Schiavetti”.

Castel Volturno 29.09.2019 (Vittorio Russo)

Infine c’è stato l’intervento dello stesso autore che con il suo solito sorriso, ma con grande impeto e fermezza ci ha detto: Ringrazio tutti voi che siete interventi, Tiziana Grimaldi, Gianmarco Luise e a Pasquale Iorio per avermi dato la possibilità di presentare questa mia ultima fatica letteraria qui sul Lido Luise, Ringrazio Giovanna Traetto per essersi prestata a leggere la recensione scritta da Francesco Nuzzo e Vittorio Russo per la lettura della sua recensione, che andava sicuramente fatta conoscere a tutti voi.

La pubblicazione di questo libro di poesie intitolato Porto Schiavetti, che stiamo qui presentando  oggi, nasce per prima cosa dall’esigenza di completare la trilogia di miei libri di poesie dedicata alla mia città; il primo volume di poesie era intitolato Variconi (poesie palustri, 1993), il secondo Volturnalia (poesie fluviali, 2005) e questo ultimo edito con il titolo di Porto Schiavetti, perché come diceva Honoré De Balzac: «Se vuoi essere universale parla del tuo paese».

Il titolo del volume Porto Schiavetti è stato scelto, non solo per ricordare il toponimo di una sponda sinistra del fiume Volturno, dove in epoca romana si venivano a caricare gli schiavi, che lavoravano nelle tante fattorie sparse nella piana del Volturno, così come è ricordato nell’Archivio puteolano dei Sulpicii, noto come Tabule pompeiane di Merucine, studiato da Giuseppe Camodeca, ma anche perché ancora oggi Castel Volturno resta un porto di schiavi, un luogo dove si ammassa non solo la numerosa popolazione extracomunitaria, che vi trova ospitalità ma anche i tanti residenti bianchi, che provenienti dai comuni limitrofi vengono a risiedere in questo nostro territorio come veri e propri nomadi.

La seconda esigenza, che mi ha spinto a pubblicare queste mie poesie è stata la perdita di umanità, a cui stiamo andando incontro negli ultimi anni. Siamo esseri umani ma a me pare che quella umanità, che per millenni ci ha distinto dagli altri esseri animali, che pure popolano insieme a noi questo stesso pianeta, si sta perdendo e non a poco a poco ma a grandi passi. Duemila e più anni di Cristianesimo pare non essere serviti a niente. Cristo, figlio di Dio per i Cristiani, ha predicato l’amore verso gli altri soprattutto i più diseredati: «Ama il prossimo tuo come te stesso», «Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te», «Amatevi l’un l’altro come io ho amato voi», «Ero straniero e mi avete accolto». Come li abbiamo accolti? Chiudendo i porti? E lasciandoli affogare in mare, perché tanto hanno pelle diversa dalla nostra. Se mettiamo da parte le credenze religiose e ci rivolgiamo alla cultura laica nata con l’Illuminismo, che ha propagandato le idee di libertà, di uguaglianza e di fratellanza, oggi coniugato con il termine di solidarietà, non è ancora riuscita a far comprendere a molti che siamo tutti figli di una stessa umanità, che esce da ben due guerre mondiali, da una persecuzione razziale come quella ebraica, che ha mandato alle camere a gas sei milioni di persone, se ancora oggi la senatrice Liliana Segre riceve duecento messaggi di odio razziale al giorno.

La terza esigenza, che mi ha spinto a pubblicare queste poesie, è stata l’empatia, che da insegnante, cerco di suscitare in quanti hanno ormai perso la loro umanità e si avviano verso quell’indifferenza, che si sta trasformando sempre più in odio razziale.

Stiamo diventando sempre più un popolo di egoisti. Chi occupa posti di responsabilità, di prestigio nell’ambito della società, della pubblica amministrazione, in politica e che dovrebbe dare il buon esempio, molte volte non lo dà e spinge soprattutto i giovani verso mete, che prima o poi saranno disilluse e porteranno al rancore verso tutti e tutto. Io sono un insegnante e sono a stretto contatto con i giovani del domani, li vedo crescere e cerco di istradarli verso la tolleranza, l’accoglienza del diverso e la solidarietà. Quanti ragazzi di colore abbiamo nelle nostre classi, che non sono più stranieri ma italiani nella mente, perché sono nati in Italia e non conoscono il loro paese d’origine, hanno frequentato e frequentano le nostre scuole, si confrontano con compagni che sono come loro, hanno le loro stesse esigenze, le loro stesse aspettative, i loro stessi sogni. E bello quello che apprendiamo dalla televisione che un ragazzino morto in mare ha cucito nelle pieghe dei vestiti la sua  pagella scolastica. Per me, che sono un addetto ai lavori, questa è una sconfitta, non personale ma dell’umanità intera.   

La domanda che mi fanno più spesso è: «Ma la poesia, serve ancora in questo secolo sempre più distratto?». Io rispondo: «Si. Serve ancora, serve perché essa esprime quelli che sono i nostri sentimenti, quella che è la nostra umanità». Se vogliamo rimanere umani dobbiamo leggere e in particolare dobbiamo leggere la poesia, perché ci spinge a meditare sui nostri sentimenti più profondi. Tutto è cambiato nella storia dell’umanità ma quello che è rimasto sempre uguale a se stesso sono i sentimenti: l’amore, l’odio, la cattiveria, la bontà, la felicità, la gioia, la speranza sono rimasti immutati, altrimenti non ci spiegheremmo come ancora oggi ci sono tanti femminicidi, tanti atti di bullismo, l’ostilità feroce verso l’altro soprattutto chi è diverso da noi, soprattutto per il colore della pelle. È vero poi che viviamo in un secolo oramai sempre più distratto, pare che non abbiamo tempo per soffermarci più su niente di serio e che ci coinvolga emotivamente o ci lascia meditare profondamente, esprimiamo ormai tutto con un like di un secondo e basta e passiamo avanti.

La poesia moderna, come ci hanno insegnato le Avanguardie e gli Ermetisti, non può più utilizzare la forma e il modello di quella dei secoli passati. Chi ormai scrive più sonetti? Quattro strofe, due quartine e due terzine a rima alternata ABAB, io penso qualcuno li scriverà per diletto personale ma non ho visto pubblicati dei sonetti dagli autori moderni. La poesia quindi non può essere, in mondo distratto come il nostro, che breve e senza più l’armamentario degli orpelli retorici della tradizione. Quando Giuseppe Ungaretti scrive: Mattinata / M’illumino / d’immenso (1917); quando Sandro Penna scrive: Il mare è tutto azzurro. / Il mare è tutto calmo / Nel cuore è quasi un urlo / di gioia. E tutto È calmo (1939), ci hanno indicato la strada che i poeti contemporanei debbono percorrere. La poesia non può essere che breve e illuminante per chi la legge, perché la canzone petrarchesca non è adatta al pubblico odierno.

L’altra domanda ricorrente, che mi fanno, è: «Ma per chi scrivi queste poesie?». Io rispondo: «Per i miei soliti quattro amici al bar». Le scrivo per i miei amici, che mi conoscono personalmente e poi per i miei concittadini, che conoscono il nostro territorio e la sua storia. Se io parlo e scrivo dell’Oasi dei Variconi, loro sanno dove si trova e così è per Porto Schiavetti. Io penso di non far altro che quello che faceva Giacomo Leopardi. Leopardi le prime opere che compose da giovanissimo le compose per i propri familiari e per i Recanatesi. Quando scriveva A Silvia, penso che a Recanati, poiché era la figlia del cocchiere di casa Leopardi, la conoscessero tutti. Quando Leopardi scriveva il Passero solitario, D’in su la vetta della torre antica, i suoi concittadini sapevano bene dove si trovava questa torre, quando scriveva l’Infinito, il colle sapevano bene dove stava. Scrivo, prima di tutto, per coloro che mi conoscono e mi vogliono bene. Se poi quello che io scrivo, coinvolge emotivamente anche il lettore di Canicattì o della Valle d’Aosta significa che ho dato vita ad un componimento tale che ha espresso un sentimento che viene riconosciuto universalmente. Ma questo, come diceva Ugo Foscolo nel sonetto Autoritratto (1803) «Morte solo mi darà fama e riposo», ma io non penso né alla fama e né al riposo eterno.   

Castel Volturno 26 giugno 2020 Lido Luise

Alfonso Caprio

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