Aldo Masullo: «La filosofia? Combustibile che infiamma mente e cuore»

di Maria Chiara Aulisio

Evidentemente la filosofia fa bene. Molto bene. Al corpo e pure all’anima se è vero – come è vero – che Aldo Masullo, tra i più autorevoli filosofi italiani, ha 92 anni e ne dimostra venti in meno. Nella testa e nel fisico. Lucidità, chiarezza nell’esposizione, memoria e velocità nel ragionamento, buona salute e assoluta autonomia, fanno di lui un vero e proprio fenomeno contemporaneo. Solo un bastone, ma neanche sempre, sul quale appoggiarsi quando scende da un taxi e sale su un altro per raggiungere i luoghi dove quasi tutti i giorni partecipa a conferenze, dibattiti, seminari e convegni. In un pomeriggio è capace di prendere parte anche a tre appuntamenti in tre posti diversi perché rifiutare gli inviti non gli è mai piaciuto e poi, ammette, stare in mezzo alla gente è una cosa che gli piace tanto.

Non sarà un presenzialista?
«Neanche per idea, anzi sono schivo. La verità è un’altra».

Quale?
«La mia vera anima è di attore e come tutti gli attori sono un timido. E questa timidezza la vinco solo quando mi ritrovo al cospetto del pubblico».

Strana timidezza.
«Per niente. Mi sciolgo davanti alla gente, ho bisogno di avere persone a cui parlare, meglio ancora con cui parlare».

Perciò ha scelto di fare il professore?
«Può darsi, o forse è proprio così. La filosofia in realtà è un dialogo, non si insegna nel senso più comune della parola».

Come non si insegna?
«Mica è la chimica che si impara sulla base di un libro, studiando regole e formule: quella è una tecnica e basta. La filosofia no, non siamo io il maestro e tu l’allievo, e neppure il contrario, siamo tutti e due coinvolti nel filosofare».

«Filosofare» anche all’esame?
«Certo. E vi assicuro che raramente ho visto studenti del tutto impreparati, più o meno bravi in base alla loro partecipazione alla vita del corso, ma mai privi di un qualche coinvolgimento morale e ideale. D’altronde lo diceva Platone, mica io».

Che cosa?
«Che la filosofia non si insegna e non si dovrebbero neanche scrivere libri».

Addirittura?
«Sì».

E perché?
«La filosofia è la vita stessa del pensiero mentre si svolge e quindi non la si può insegnare stando in cattedra e dicendo: “Guardate che la verità è questa”. Ma non scherziamo».

Lei come faceva?
«Entravo in aula, prendevo un grande classico e davo il via alla lezione».

In che cosa consisteva la lezione?
«Nella comprensione della filosofia. Leggevo Hegel, la sua fenomenologia, tanto per fare un esempio. Ma leggevo anche la logica, sempre di Hegel, una delle cose più difficili in campo filosofico. Poi Spinoza e tutti i maggiori pensatori».

Leggere e basta?
«Facevo così: aprivo una pagina e esortavo i miei studenti a capire che cosa quella pagina significasse davvero. Cominciavo con una parola, una proposizione, per arrivare a stabilire a quale passato si potesse riannodare, in quale circostanza storica fosse stata pronunciata».

Così riusciva a interessare gli studenti?
«Nessuno restava estraneo alla lezione, erano tutti partecipi attivi e non passivo: la filosofia è come una fiamma che se si trova accanto a del materiale combustibile per caso si accende».

D’accordo, però il materiale deve essere combustibile altrimenti non brucia proprio niente. O no?
«Posso assicurarvi che il materiale è quasi sempre combustibile, si tratta solo di infiammarlo nel modo giusto».

Vale a dire?
«Ho sempre cercato di far capire agli studenti che leggere filosofia significa parlare di se stessi, non nel senso biografico e individualistico, ma in quello universalmente umano che c’è in noi. Discutiamo, ci scontriamo, la pensiamo diversamente ma alla fine c’è qualcosa che ci accomuna, e questo è ciò che vale».

Si racconta che le sue studentesse fossero quasi tutte innamorate di lei. Conferma?
«Avviene sempre che ci si innamori dei propri professori».

Mica di tutti.
«Basta solo fare sul serio e adempiere il proprio compito che è quello di far capire l’importanza della ricerca filosofica».

Qual è il modo per «fare sul serio»?
«Non certo prendendo il manualetto e dicendo ai ragazzi leggete da pag x a y. Così non si va da nessuna parte».

Senza manualetto lei incantava le ragazze.
«Vabbè, diamolo per scontato storicamente: le studentesse si innamoravano di me. In ogni caso, donne o uomini, gli studenti li ricordo tutti».

Tutti?
«Quasi. Li ho incontrati ovunque, anche all’estero. La cosa singolare che ho notato, e che mi riempe di gioia, non è tanto l’ammirazione che hanno nei miei confronti ma l’affetto perché non c’è attività intellettuale che non sia anche passione e sentimento».

Quanti allievi ha avuto?
«Tanti. Molti anche bravissimi, parecchi sono diventati professori di filosofia».

Qualche nome.
«Penso a Giuseppe Cantillo, che ha insegnato fino a pochi anni fa alla facoltà di Lettere: salì proprio sulla mia cattedra. E a Maria Paola Fimiani, docente di filosofia morale. Un’altra grande allieva è stata Biancamaria D’Ippolito, morta qualche anno fa: anche lei fu ordinaria di filosofia morale. Adesso poi ci sono quelli di terza e quarta generazione. Bruno Moroncini tra gli altri, ma pure tanti giovani».

Che rapporto ha con loro?
«Ottimo. Mi chiamano tutti, mi ricordano, finalmente ci diamo del tu».

Perché prima no?
«Quando insegnavo non ho mai dato del tu agli studenti. Qualcuno me lo chiedeva: “Prof, mi dia del tu”».

E lei?
«“Le darei del tu solo se lei potesse dare del tu a me, ma se lei potesse dare del tu a me cesserebbe quel minimo di distanza che ci deve essere tra chi insegna e chi apprende”».

Quindi lei tiene alle distanze?
«No, sono contrario ma c’è una esigenza didattica da rispettare. Quando iniziavo un nuovo corso mi chiedevo: che tipo di linguaggio adopero? Quello degli studenti per farmi capire meglio, oppure un linguaggio tecnico che dia loro l’impressione dell’importanza del mio sapere?».

Quale sceglieva?
«Nessuno dei due. In un caso o nell’altro non si sarebbe stabilito alcun rapporto. Lo dico anche ai giovani professori: ricordate che dovete mettervi sempre un po’ più su come livello di discorso, non tanto da interrompere o rendere impossibile il confronto, ma quel poco che stimoli l’altro a fare un passo avanti».

Dice?
«Certo. Tutto ciò è molto importante anche sul piano del rapporto affettivo: gli studenti devono sapere che gli vuoi bene ma questo non deve confondersi con quella sorta di cameratismo e di amicizia che fa perdere l’energia dell’apprendere».

Passiamo agli esami.
«Li facevo tutti io».

Tutti?
«Il mio programma era piuttosto complesso, mai permesso dispense, ma solo i classici. Non so, avevamo letto la Fenomenologia di Hegel? E allora gli facevo portare i due tomi e all’esame si discuteva di qualche pagina».

Solo qualche pagina?
«Per la verità quasi sempre c’era anche una mia monografia su cui avevamo discusso durante il corso».

L’esame come si svolgeva?
«I classici venivano esaminati dai miei collaboratori, la parte più teorica invece la dovevano fare con me. A proposito di esami ricordo ancora un episodio».

Quale?
«Era il 1968, insegnavo a Salerno, era il periodo delle contestazioni. Stavo facendo esami quel pomeriggio quando si presentò un gruppetto di studenti: “Professore dovreste andare via tutti, dobbiamo chiudere l’università”».

E lei che cosa rispose?
«“L’università, almeno questa parte, se non vi dispiace la chiudete quando ho finito di fare esami: voglio ricordarvi che qui ci sono 20 persone che vengono da tutto il Sud Italia per sostenere questa prova e non li mando a casa così”».

Si convinsero?
«Al momento. Dopo un’ora tornarono: “O ve ne andate e ci lasciate chiudere l’università oppure continui pure a fare gli esami ma il voto sarà collettivo”».

Voto collettivo?
«Una specie di comunismo dell’esame, si usava nel ’68: tutti interrogavano e tutti decidevano il voto che lo studente avrebbe dovuto avere».

Una follia?
«Più o meno. Ma non mi persi d’animo e risposi così: “Il problema non è che io sono il professore e voi gli studenti. No, non è questo. Il problema è un altro”. E feci un esempio».

Quale?
«“Immaginate di essere, che so, alla Fiat, e di provare un nuovo motore: è giusto che ci siano gli ingegneri che lo hanno inventato, i tecnici che lo hanno prodotto e pure gli operai, tutti insieme certo, ma quelli che lo hanno fatto, il motore. Voi per caso avete partecipato al mio corso, avete insegnato o imparato qualcosa di filosofico? No, e allora? Chi li deve mettere questi voti, voi o io?”. Li misi io».

 

 

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