Bettina & Katharina (Una storia vera) di Matilde Maisto

Seduta su una comoda poltrona ed avvolta dal dolce tepore di uno scoppiettante fuoco nel caminetto della cucina, mi lasciavo cullare dalla coinvolgente storia che mi stava raccontando nonno Peppe. Un uomo ormai anziano, ma con una grande vitalità, fisico asciutto, baffetti accattivanti ed occhi che ti scrutavano e ti parlavano, sempre amabilmente, ma che sapevano toccare le corde giuste e leggere nel più profondo dell’anima. Io amavo nonno Peppe, lui era proprio un brav’uomo, con una moralità integra ed un cuore fiero, sincero e coraggioso. Avevo per lui una grande stima e, da lui, spesso traevo insegnamenti di vita.
La “Seconda guerra mondiale” – mi diceva in quell’occasione – è un nome che evoca, nelle persone che l’hanno vissuta, tanti ricordi: avevamo 17 e 15 anni quando ci siamo conosciuti ed innamorati Bettina ed io, proprio qualche anno prima dello scoppio della seconda guerra mondiale.
Ma quando il conflitto si accese il nostro tenero amore diventò quasi impossibile perché sia Bettina che io dovemmo allontanarci dalle nostre case per raggiungere dei luoghi meno esposti ai bombardamenti e sfuggire, per quanto possibile, agli orrori della guerra, ed io poi, soprattutto, per non essere catturato dai tedeschi che rastrellavano giovani e uomini adulti per costringerli a lavorare in Germania.
Quel giorno – continuò – ero alla disperata ricerca di notizie della mia adorata Bettina, che era sfollata di notte con la sua famiglia senza lasciare alcuna informazione e senza neppure un saluto. Ero fuori di me dal dispiacere del distacco e vagavo per le strade senza una meta precisa quando, all’improvviso mi venne intimato l’ALT da parte di un giovane ufficiale del terzo Reich a bordo di un blindato che, con un tono autoritario, mi domandò, in uno stentato italiano: – Badoglio O Mussolini? – In quel momento non seppi dare una risposta concreta, vittima, come tutto il nostro paese, dell’incertezza legata anche alla meschina fuga del re Vittorio Emanuele III e del maresciallo Badoglio a Brindisi, e risposi semplicemente: – SONO ITALIANO… –
La mia risposta diede adito all’errata convinzione che io appoggiassi il sovrano e non il Duce, per cui l’ufficiale tedesco, sordo alla disperazione di mia madre che, giunta sul posto in quel momento, cadde disperata ai suoi piedi tentando di dissuaderlo da un epilogo già tristemente noto, ritenne opportuno portarmi con sé.
Da quel momento una lunga odissea mi attendeva. Fui portato ad Aversa, luogo di smistamento di tutti i rastrellati della regione. Dopo qualche giorno giunse l’emblema della deportazione di quegli anni: un macabro treno-merci in cui noi accampati, in condizioni di estrema precarietà, fummo costretti a salire e, dopo un lungo calvario, di venti giorni, arrivammo a Monaco di Baviera.
La mia destinazione fu, in un primo momento, il campo di smistamento di Dachau, situato nelle vicinanze del famoso lager. Sul portone d’ingresso del Campo c’era scritto “Il lavoro rende liberi”, in realtà noi malcapitati ci sentivamo avviliti e resi schiavi. Inoltre con l’inverno alle porte il gelo non tardò ad arrivare e noi deportati fummo costretti a patire il freddo intenso, restando assiderati per la mancanza di indumenti adeguati e vivendo in misere baracche diroccate.
La fame fu la nostra compagna quotidiana, e non solo, infatti: malattie, sfruttamento, torture e feroci esecuzioni erano sempre in agguato, tanto che il numero dei deceduti aumentò vorticosamente.
In seguito fui spostato e la seconda tappa fu il lager di Graz, città nel Land austriaco. Qui il luogo era assolutamente desolante, privo di qualsivoglia vitalità: baracche spoglie e rudimentali, con giacigli per la notte senza nemmeno un po’ di pagliericcio.
All’interno del Lager la vita era durissima, si viveva in modo precario e si lavorava senza un attimo di riposo. Tuttavia, nonostante la mia disgrazia, col tempo, riuscii a farmi benvolere dal Lagerfuhre, la più alta autorità all’interno del campo. Infatti, grazie alla mia intuizione di mostrarmi sempre docile e dandomi da fare con favori ai superiori, lavoretti subordinati, ottenni in cambio un trattamento migliore. In questo modo potei rendere la vita nel campo meno amara, ottenendo anche degli speciali permessi di poche ore, e così, mi fu possibile, finalmente, recarmi in città.
Una sera, il Lagerfuhre, diventato ormai un mio buon amico, mi invitò a cena a casa sua con la sua famiglia. Fu proprio in quell’occasione che conobbi Katharina, la sua giovane figlia. Pensando a lei, nonno Peppe, respirò profondamente e rimase per un attimo in silenzio. Poi disse – era bella Katharina, aveva lunghi capelli biondi e due occhi azzurri, come il mare. La sua bellezza e la sua innata eleganza mi conquistarono al primo sguardo, fu un amore a prima vista e la mia gioia raggiunse il culmine quando compresi che lei ricambiava il mio sentimento in egual misura. I nostri cuori battevano all’unisono con il fervore di due giovani ragazzi coinvolti in un improvviso moto dell’animo che, acceso da una passione violenta e dolcissima, determinò la mia volontà e mi spinse ad agire senza dar tempo alla riflessione.
Quelli che seguirono furono i più bei giorni della mia vita. Katharina ed io ci amavamo senza riserve e sembrava che niente e nessuno potesse cambiare quella fantastica realtà. Bettina era troppo lontana ed anche il ricordo di lei diventava sempre più labile, capivo che il sentimento che mi aveva legato a lei non era così forte come quello che provavo per Katharina. Il mio cuore mi portò a vivere pienamente il mio nuovo e grande amore e fui completamente conquistato dalla mia nuova vita. Katharina mi dava mille emozioni esaltanti, con lei ebbi anche l’esperienza di trascorrere delle serate a teatro, rapito e trasportato in un mondo fantastico dalla musica di Strauss. Dico questo per far comprendere come per un giovane di provincia come me, quelle siano rimaste le esperienze più incantevoli della vita.
Ma poi giunse quel fatidico 8 maggio 1945, allorchè gli esponenti della Suprema Autorità dell’Alto Comando Tedesco (VON FRIEDEBURG ,KEITEL, STUMPF), dichiararono al Comandante Supremo delle Forze Alleate e contemporaneamente al Comando Supremo dell’Armata Rossa, la resa incondizionata di tutte le forze armate di terra, di mare e dell’aria che a quella data erano sotto il controllo tedesco.
Fu così che i deportati ebbero la possibilità di iniziare la loro nuova odissea, ma questa volta si trattava del viaggio di ritorno verso casa… il viaggio verso la libertà.
Per me la nuova situazione fu assolutamente devastante: da una parte c’era Katharina, il vero amore della mia vita, dall’altra la libertà, il ritorno in Patria e Bettina, la piccola Bettina che, ero certo, mi attendeva con devozione. Questo dualismo mi consumava, non mi faceva dormire la notte, mi dava una grande sofferenza fisica…Pensavo: avrei potuto proporre a Katharina di venire con me, in fondo qualcuno aveva già agito in questo modo! Ma poi che cosa ne sarebbe stato di Bettina? E della mia moralità? Della mia parola di uomo onesto? Ma forse essermi innamorato di Katharina mi rendeva un uomo disonesto? E Katharina mi amava al punto di lasciare la sua vita e venire con me? Mille pensieri turbinavano nella mia testa, ero in preda ad una disperazione infinita, ma alla fine anche se il mio cuore continuava a battere forte per Katharina decisi di partire, ben conscio che non smettevo d’amarla solo perché me ne andavo, non si può smettere d’amare, così come non si può smettere di vivere, forse ci si abitua piano, piano ad allontanarsi dall’abitudine e si ricomincia da zero. Così tentai di dirle, ma l’ultima immagine che mi rimane è Katharina che scappa via piangendo!
Tuttavia il triste addio mi diede un rinnovato vigore, ora non potevo più indugiare, Bettina mi amava, mi aspettava, aveva fiducia in me, io non potevo deludere le sue aspettative e, poi c’era mia madre, piegata dai sacrifici e dal dolore di avermi perso. La immaginavo china a raccogliere pomodori o spighe di grano, con il suo solito foulard scuro sulla testa, in vita solo per riabbracciare me.
Alla fine, quindi, mi aggregai ad un gruppo di uomini ed in treno da Graz, raggiungemmo il confine italiano, poi a piedi sino ad Udine in compagnia di un giovane tenente meridionale. Il nostro viaggio non fu semplice, eravamo due reduci stanchi ed affamati, costretti a camminare nascondendoci dalle rappresaglie dei soldati tedeschi che nel nord dell’Italia vivevano ancora “l’ultimo canto del cigno”. Tuttavia noi, sentendo vicina la fine dell’incubo, continuammo a camminare fino a quando non fummo fermati da alcuni soldati polacchi, i quali ci accompagnarono fino ad Ancona. Appena arrivati i carabinieri del posto ci munirono della famosa tessera, essenziale per accedere alle razioni di cibo previsto e, oltre a questo regolare sussidio riservato ai prigionieri di guerra, l’Arma dei Carabinieri si impegnò anche a pagarci il biglietto ferroviaro da Ancona a Roma. Poi da lì, nascosti in un treno merci noi due poveri compagni di sventura ed avventura, esausti, laceri, sfiniti arrivammo a Caserta. Qui le nostre strade si divisero. Il mio amico proseguì per Napoli mentre io tramite una vecchia e malandata corriera raggiunsi la mia città natale: Cancello ed Arnone.
Fu solo allora che realizzai di essere ormai salvo, pensai a Katharina, il mio perduto amore e, con la mente ormai rivolta al mio presente, ebbi la netta sensazione che il suo bellissimo amore mi avrebbe accompagnato tutta la vita come il mio sogno più bello, ma ora la realtà era un’altra, ed ecco vidi da lontano Bettina che correva con le braccia tese verso di me, dietro di lei mia madre, con un passo più lento, ma sorridente e felice mi veniva incontro. In quel momento pensai nuovamente a Katharina ed in cuor mio dissi: TI AMO KATHARINA… MA TI DICO ADDIO!

Matilde Maisto

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