… DAL 25 APRILE AL 1° MAGGIO …

  di Paolo Pozzuoli

Da quello che abbiamo visto e da quanto letto e sentito, non sembra affatto infondata la sensazione che le celebrazioni dello scorso 25 aprile – ricorrenza del 71° anniversario della liberazione,  la prima sia delle tre feste nazionali dell’anno che dell’altra, di caratura internazionale, del 1° maggio – non sono state tutte rose e fiori. Amor di Patria a parte, è stato davvero uno spettacolo indecoroso, un pessimo esempio di civiltà. Nel corso delle manifestazioni, sono stati, infatti, avvertiti, in modo esponenziale – segno di una palese insofferenza, di un diffuso malessere, di una gravità inconcepibile – segnali di allarme che, palesando in modo chiaro ed inequivocabile l’assoluta mancanza di senso di civiltà, di etica, di cultura, di gratitudine, di riconoscenza, hanno posto l’accento sul tema della dignità, dell’appartenenza e del senso di democrazia. Vero è che la contestazione è diventata ormai una prassi consolidata, un rito, un atto dovuto e/o un fatto di costume, ma c’è un limite a tutto. Non si è avuta una sola manifestazione degna di questo nome – concertoni a parte, dai risvolti articolati e diversi, oltre i palcoscenici, come poi apprendiamo dalle notizie di cronaca – che non abbia avuto la ‘meritata’ contestazione. In proposito, vogliamo ricordare che, nella prima metà del secolo scorso – periodo post 28 ottobre 1922/ante 25 aprile 1945 – i contestatori venivano etichettati come oppositori al regime. E, in quanto tali, nella migliore delle ipotesi, venivano mandati in esilio, al confine ed ‘assistiti’ economicamente dallo stesso regime al governo. Detti oppositori erano, in verità, tutti personaggi di rilievo, illustri, dalle spiccate intelligenze e coscienze politiche: i padri della Repubblica e della Costituzione. Successivamente, a partire dalla metà degli anni ’60 ci siamo imbattuti in contestatori di altro stile, protagonisti di un’altra forma di contestazione, trampolino di lancio, pur prescindendo dalle intelligenze, dalla cultura e dalla preparazione, per raggiungere vertici incredibili e occupare quelle poltrone e quegli scranni cui avevano mirato. C’è stato, infatti, chi, riparando all’estero al fine di evitare l’onta delle condanne inflitte dai tribunali, e autoproclamandosi  ‘rifugiato politico’, ha percepito anche indennità, stipendi, vitalizi. Abbiamo ascoltato e letto – l’assunto si è ripetuto con altra formulazione ma la sostanza non cambia – che bisogna resistere. “È sempre tempo di Resistenza, ecc.”. Sì, ma contro chi? E, ‘usque tandem’? Ci venga detto, esplicitamente una volta per tutte, fino a quando e chi è il nemico da combattere! I nostri cari, settantuno anni fa, individuato  il nemico, l’hanno eroicamente combattuto rischiando, mettendo in pericolo e infine anche immolando la propria vita. Più che una resistenza, è stato un combattimento:  ovunque si udiva lo stridore, il crepitare delle armi da fuoco senza soluzione di continuità dalla Sicilia alle Alpi. E, in loro soccorso, con i potenti mezzi di allora – vuoi bellici, vuoi economici – a disposizione, venne da lontano una potenza straniera che aveva pochi rivali al mondo (… oggi, a qualsiasi latitudine, non c’è più pace; non c’è Paese che non minacci palesando di avere in dotazione materiale bellico di ultima fattura, pronto a brillare, ad esplodere laddove puntato, anche a distanze inimmaginabili;  laddove poi ci si sente in pericolo, entra in azione il corpo diplomatico, in perenne stato di allerta, nel velato tentativo di scongiurare nuovi focolai, nuove guerre) e che, dopo aver dato una svolta alle nostre sorti, ci accolse nel suo grembo. Il primo imperativo categorico di questo XXI secolo è uno solo: evitare il crollo dell’economica familiare. Siamo sull’orlo del fallimento economico. Non abbiamo ricette miracolose per scongiurare la disastrosa situazione economica. Una cosa però è certa: dal Colle, dal Governo, dalle Camere del Senato e dei Deputati, non eliminando la miopia cronica e quindi non correndo ai ripari, prima o poi ci aspetta la più infima delle cavità finanziarie.  Ovvero, destinati alla povertà, alla miseria, e senza futuro! Perché una volta precipitati, è difficile – per non dire impossibile – venirne fuori dal momento che non abbiamo la stoffa e nemmeno l’animus pugnandi che restano una peculiarità esclusiva dei nostri nonni. I quali, non solo di un’altra scorza ma in loro era anche radicata quella cultura contadina che abbiamo rimossa in quanto allevati in una culla di illusioni che pullulava di una politica industriale per aver messo da parte il comparto contado, ma anche alfieri di una economia molto simile ad un centro benessere. Purtroppo, qui, da noi, la prima (politica industriale) è stata un fallimento totale e la seconda (politica economico-finanziaria), in via di esaurimento i pochi risparmi messi da parte dai nostri avi ed ereditati dai nostri genitori, si sta esaurendo. Riccardo  Lenzi, su ‘Il Fatto Quotidiano’ del 25 aprile u.s., ha elencato quarantaquattro cose – dalla povertà alla rassegnazione – cui resistere. Parimenti, nessun cenno contro chi combattere. Eppure i nostri nemici sono ben noti! È quindi superfluo e inutile menzionarli uno per uno. Combatterli? È semplicemente vano! Si rischia tutto perché si parte già sconfitti! Ci contentiamo di vivere alla giornata. I venti di guerra ci sfiorano e per ora non ci toccano ed i combattimenti avvengono lontano da noi che assistiamo alle guerre in diretta televisiva. E domani, domani è un altro giorno! È vero, ma è il ‘1° maggio’. Che – si spera – venga a lenire le ‘ferite’ del ’25 aprile’. Ci si abbandona ai concerti programmati nelle grandi piazze, una volta teatro di veementi comizi sindacali che vedevano protagonisti sia rappresentanti di primo piano di sigle sindacali che lavoratori.  I primi, davanti ad uno spettacolo straordinario, raduni oceanici, piazze piene, zeppe di persone dall’incrollabile fede e dall’incredibile serbatoio di voti che sventolavano le loro bandiere rosse (amiamo ricordare che, durante un comizio a Piazza Portanova in Salerno – vigilia delle elezioni politiche dell’anno 1968 – un lavoratore al commento ‘quante bandiere rosse’, rispose ‘sono rosse come il nostro sangue’), arringavano e sostenevano gli altri con frasi e parole da far rabbrividire, che facevano venire la pelle d’oca. Sempre a Salerno, la ricorrenza del 1° maggio, per la CISL, prima della costituzione della triplice  – mentore Franco de Michele, dirigente INAIL, sindacalista e politico di cui vogliamo  ricordare la memoria con  particolare affetto – aveva un significato particolare: la festa di S. Giuseppe Lavoratore. Che tempi quelli!

Paolo Pozzuoli

 

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