Dottor Plantone di Franco Presicci

“Dottor Plantone, mi spiega perché quando lei rilascia un’intervista, se accenna a una operazione non fa mai i nomi dei malacarne che nell’occasione furono arrestati? Così si fa torto alla completezza dell’informazione”. “Me ne rendo conto. Però, se, raccontando fatti remoti, si rivela l’identità delle persone, si possono fare danni non da poco. Perché quelle persone possono aver cambiato vita, avere figli che studiano o lavorano onestamente… e non sarebbe giusto esporli nuovamente alla curiosità della gente. Tra l’altro, tutti sanno che io ho sempre avuto rispetto anche di chi ha violato il codice penale. Ha sbagliato e deve pagare, non si discute, ma non essere sempre esposto alla berlina”.

Vito Plantone era uno dei pilastri della questura. Taciturno, voce bassa a volte persino impercettibile, elegante nel modo di vestire e nel comportamento, colto, schietto, fiuto sottile. Aveva lavorato in via Fatebenfratelli, a Milano, sede della questura, con il mitico Mario Nardone, tra l’altro l’artefice della Volante; e assieme a Mario Jovine, poi diventato prefetto, a Ferdinando Oscuri, il maresciallo di ferro, e ad altri di notevole spessore; condotto indagini importanti e girato il mondo sulle tracce di trafficanti di droga. In un’intervista che gli feci nell’85 a Catanzaro, dove era questore, mi raccontò il viaggio che aveva fatto nel ‘71 in Italia per mettere in trappola il “clan”, guidato dal “boss” più famoso in Lombardia, che a Roma con i suoi aveva compiuto una rapina al furgone di un’azienda. Plantone sostò in diverse città, dove lo portavano indizi e segnalazioni; fece perquisizioni; sollecitò chi poteva sapere e osservava il più ostinato silenzio… Alla fine arrivò in un lussuoso albergo siciliano, dove, fingendosi turista, si fece accompagnare dal personale in una visita all’ambiente. Sul bordo della piscina vide il “boss”, il suo luogotenente e le loro donne; notò uno scatto e una mano che si allungava verso una pistola che era sul tavolino e non si scompose: “Se fossi in te, non lo farei”. Riempì il carniere e tornò in questura. Neppure in quella occasione mi volle fare i nomi, anche se io conoscevo tutta la storia degli interessati.

Così era anche Mario Nardone, definito simpaticamente “il Gatto” per la sua abitudine di investigare da solo, realizzando risultati clamorosi, come la volta in cui, nelle vesti di un idraulico, acciuffò il rapinatore più scatenato del tempo: in moto raggiungeva Milano con un complice, faceva il colpo e se ne tornava soddisfatto al paesino. Conoscevo anche la biografia di quei due, ma quando intervistai Nardone nella sua casa di via Tortona, mi sentii dire: “Niente nomi. I nomi appartengono al passato e non è nel mio stile sbandierarli.

Dei cani che faticavano parecchio per raccogliere tartufi per i loro giornali Plantone aveva molta considerazione. Soprattutto per Arnaldo Giuliani del “Corriere della “Sera”. Lo aveva conosciuto quando era ancora giovane e già ricco di talento. Ma anche a lui diceva che non gli piaceva fare favoritismi. I neristi lo aspettano anche fino a mezzanotte e oltre; e quando lo vedevano varcare la soglia della questura diretto a casa gli si assiepavano intorno. Lui li invitava al bar e magari in una delle osterie vicine (che allora si chiamavano trani, essendo gestite da immigrati della città pugliese), e distribuiva un po’ di colore, qualche particolare di contorno, ma mai una parola sul contenuto delle indagini in corso.

Era intelligente, abile, metodico. Nel ’70 dal giornale ebbi l’incarico di scrivere una pagina su come freme di notte la città sotto la pelle; e chi più e meglio di lui – pensavo – poteva esaudire le mie domande. Bussai alla porta del suo ufficio; e mentre m’informava, lo interruppe una telefonata da una città del Sud; e dalle sue parole intuii che qualcosa di grave stava per accadere. Ma da lui nessuno spiraglio. Il giorno dopo in via Palmanova una banda fece una rapina da manuale, ma scattò la trappola disposta da Plantone e la combriccola venne impacchettata e trasferita a San Vittore. Quella telefonata comunicava che dei “duristi” erano partiti in macchina diretti a Milano e al “Poirot” era stato chiaro il motivo del movimento l’obiettivo.

Nell’aprile dell’80 una ventina di detenuti evasero da San Vittore. Come un lupo solitario Il “detective” s’impegnò, con uomini fidati, nella caccia, mentre la moglie Emma pregava l’angelo custode che lo tenesse lontano dai pericoli. Uno dei fuggitivi non ci metteva molto a sparare. Aveva già sulla coscienza parecchi omicidi, raccontati poi in tre o quattro libri e in un film. Dopo qualche giorno la pellaccia, che per aprirsi la via verso piazza Filangieri aveva ferito due poliziotti penitenziari, e altri vennero acciuffati e riportati in cella. Tenterà altre fughe. Era una sorta di Vidocq, il re delle evasioni francesi, a cui venne poi dato il compito di fondare la gendarmeria.

A Catanzaro, dove occupava la poltrona di questore, non si trovava bene, perché la notte circolavano solo lui, il suo autista, un mago e un esercito di gatti. Me lo disse scherzando quando andai a trovarlo per un’intervista per “Il Giorno”. Dopo un paio d’anni fu trasferito a Brescia, quindi a Palermo, dove era prefetto Mario Jovine, suo amico ed estimatore. Jovine, napoletano doc, suonava la chitarra, ma non se ne vantava. Anzi: “Pizzico le corde solo per divertimento”. Non era vero. Da capo della squadra Mobile a Milano, braccio destro Plantone in perfetta forma (della Mobile era stato anche vice) dovettero occuparsi di un’audacissima rapina a una famosa oreficeria nel salotto della città. Individuarono tutti gli autori, li neutralizzarono, li interrogarono, ma dovettero impegnarsi parecchio perché erano grossi calibri della “malandra” di provenienza marsigliese, quindi gente dalla scorza dura e solita a tenere la bocca cucita. Soprattutto uno.

Vito Plantone conosceva bene il mondo della criminalità. Nomi, cognomi, indirizzi, covi, e in caso di bisogno sapeva dove andare a pescare. Svolse a Milano quasi tutta la sua attività professionale. Fu anche dirigente di distretti e commissariati, dove lasciò una grande ricordo. Ebbi l’idea di una serata in cui era previsto un premio per lui e l’ispettore Armando Sales, il cui commissariato era competente per il territorio in cui si svolgeva la manifestazione (la galleria “Prospettive d’arte” di via Carlo Torre, in zona Naviglio Grande), invitato ad entrare, rispose che per rispetto lo avrebbe fatto soltanto al seguito del questore Vito Plantone. Quando il commendatore arrivò ebbe inizio la cerimonia, che prevedeva un discorso di Arnaldo Giuliani, allora capocronista del quotidiano di via Solferino.

Era nato a Noci, bella cittadina in terra di Bari. “Un giorno ti porterò al mio paese e ti mostrerò la bellezza del suo centro storico, ordinato, pulito, silenzioso, più riposante di quello di Martina. E ti farò gustare le mozzarelle, che non sono seconde alle altre”. Era innamorato della sua “culla”, delle asserie, dello “struscio”, dove incontrava i suoi concittadini, orgogliosi di passeggiare con lui. Qualcuno gli chiedeva del suo ultimo colpo che aveva meritato spazio sui giornali e passaggi in televisione e lui dribblava: “I giornali esagerano”.

Lo vedevo spesso a Milano, soprattutto dopo la pensione. Oltre che poliziotto attento, inflessibile, scrupoloso era un uomo di compagnia. Se era libero, non diceva mai di no ad una delle nostre riunioni. E se si scivolava nelle barzellette, tirava fuori le sue, esilaranti, recitandole con una verve da fare invidia al simpaticissimo Walter Chiari.  Serio, baffetti ben curati, alto, sorrisi appena abbozzati, quando era con gli amici cambiava registro. A Leggiuno, in provincia di Como, dove aveva una casa, seduti sul balcone, catturò la mia attenzione per una decina di minuti per farmi scoprire alla fine che era una storiella spiritosa. Organizzavamo cene in casa, con gli immancabili Costantino Muscau, inviato speciale del “Corriere”, il pittore Filippo Alto, barese e meneghino; il questore Enzo Caracciolo; il prefetto Francesco Colucci… E lui invocava il peperoncino piccante da spargere sulla pasta con i ceci o sugli spaghetti col sugo. Poi in tavola compariva la “’nduria”, e la tagliava a piccoli pezzi e con una cura che si riserva agli oggetti preziosi. Una sera mi parlò delle cicerchie e si meravigliò della mia ignoranza in materia, prendendomi a lungo per i fondelli, sostenuto soprattutto da Alto, buontempone come pochi.

A Noci invitava gli amici più cari, e dopo le tavolate li portava in giro per far loro apprezzare il paesaggio. Trascorremmo una serata splendida in campagna da suo cognato, Lino Colucci, già dirigente scolastico nato a Martina, un gentiluomo di vecchio stampo, e sua moglie Isa, professoressa di scienze. Mise sul “barbecue” i “fegatini”, mentre i fratelli, le nipoti, le cognate, la moglie assaggiavano pietanze gustosissime.

Erano sempre liete le riunioni allestite da Vito Plantone, un poliziotto inflessibile, ma dal cuore grande quanto un transatlantico. Una notte assieme all’ispettore Scaffidi m’invitò al night “Marocco”; e notai l’accoglienza fervorosa che gli tributarono. Quella dovuta al “re delle notti milanesi”, come amava definirsi.  Ha lasciato un vuoto in chi gli ha voluto bene.

 

 

Franco Presicci

 

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