Il Lonfo: la poesia metasemantica di Fosco Maraini

Il Lonfo, è il simpatico animaletto – questa l’ipotesi più accreditata – uscito dalla penna di Fosco Maraini nel 1978. La poesia Il Lonfo, forse l’esempio più noto e illustre di metasemantica mai scritto, fu inserita nella raccolta Gnosi delle fanfole.

L’esperimento letterario fu talmente interessante che si decise di trasformarlo anche in un disco (lo stesso Maraini suggeriva di cantare le rime da lui scritte): la musica è firmata da Stefano Bollani e la voce è quella di massimo Altomonte.

Il testo de Il Lonfo

Il Lonfo non vaterca né gluisce
e molto raramente barigatta,
ma quando soffia il bego a bisce bisce
sdilenca un poco e gnagio s’archipatta.

È frusco il Lonfo! È pieno di lupigna
arrafferia malversa e sofolenta!
Se cionfi ti sbiduglia e ti arrupigna
se lugri ti botalla e ti criventa.

Eppure il vecchio Lonfo ammargelluto
che bete e zugghia e fonca nei trombazzi
fa lègica busìa, fa gisbuto;

e quasi quasi in segno di sberdazzi
gli affarferesti un gniffo. Ma lui zuto
t’alloppa, ti sbernecchia; e tu l’accazzi.

La metasemantica… meta che?

Questa tecnica letteraria è stata interamente inventata e teorizzata proprio da Maraini e consiste nell’utilizzo di parole prive di significato, ma dal suono familiare alla lingua cui il testo appartiene (nel nostro caso, ovviamente, l’italiano).

Sono, quindi, termini privi di referente linguistico, ma comprensibili perché costrette a seguire le stesse regole sintattiche e grammaticali della lingua del contesto generale.

Il significato – in realtà non ufficialmente codificato – può essere desunto da tali regole, ma anche dal suono delle parole, spesso evocativo oppure onomatopeico, dalla loro posizione all’interno di una frase, ma si tratta di un significato attribuito assolutamente a livello personale.

Al giorno d’oggi sono molti i poeti, soprattutto a carattere amatoriale e nella poesia dialettale, che fanno uso della metasemantica.

Chi è Fosco Maraini, autore de Il Lonfo

Fosco Maraini è stato innanzitutto un poeta, geniale come abbiamo visto, e padre di Dacia Maraini, anche lei insigne scrittrice. Ma fu anche uno scultore, un etnologo specializzato nelle civiltà orientali, un intellettuale…

Irresistibilmente attratto dall’Oriente, s’imbarcò nel 1934 sulla Amerigo Vespucci diretta in Africa del nord e Anatolia come insegnante d’inglese. Nel 1937 partecipò a una spedizione in Tibet che ripeté anche undici anni più tardi. Conosciute, infatti, sono le sue fotografie delle catene montuose del Kakarakorum e dell’Hindu Kush, finché non si trasferì stabilmente in Giappone dove fu ricercatore all’università di Kyoto e di Sapporo e dove nacquero le altre due sue figlie.

Come t’invento una lingua

Quella della poesia metasemantica è, in definitiva, una lingua inventata che si gioca il tutto per tutto sull’aspetto evocativo basato sull’elemento uditivo.

In questo modo parole astruse assumono forme, colori, suoni… ma non basta inventare parole, bisogna pensare anche alla grammatica e alla sintattica per creare ex novo una lingua!

Ora, la metasemantica questo non lo fa, ma ci sono stati esperimenti che hanno osato ben oltre. Si pensi all’esperanto o al quenya (la lingua degli elfi inventata da Tolkien in Il signore degli anelli).

In entrambi i casi si è partiti da lingue conosciute (una o più di una) e si sono deformate le desinenze e le parole, trasformandone di fatto la musicalità, un po’ come si faceva da bambini parlando al contrario o cercando di cantare le canzoni in un maccheronicissimo inglese ottenuto sparando parole a caso che però rispettassero la metrica della canzone.

Per dovere di cronaca, esistono anche lingue inventate che non poggiano su nessuna base “conosciuta” e che alimentano la tecnica del nonsense. È il caso del grammelot – diffuso da Dario Fo – che confonde l’uditore facendogli credere di trovarsi davanti a una lingua conosciuta che gli risulta, invece, incomprensibile. Molto usato dagli attori in diversi contesti, in genere viene pronunciato rapidamente e accompagnato da gesti molto eloquenti che suppliscono alla comprensione linguistica.

Proviamo a tradurre Il Lonfo

E siamo dunque arrivati alla resa dei conti con il Lonfo, le cui sembianze ci saranno eternamente sconosciute (provate a leggere la poesia a un bambino e poi fategli disegnare il Lonfo: è un gioco molto divertente che ho fatto con mia figlia Irene di quattro anni, il risultato è quello in foto).

Ma prima di cimentarci nella nostra personale – e dunque affatto esauriente – traduzione, vogliamo ricordare che questo componimento ci insegna che per la riuscita della poesia stessa non basta solo la lingua, ma servono il cuore e il cervello dell’autore; una capacità declamatoria non indifferente, possibilmente con voce stentorea del declamante; e l’interpretazione dello stesso che deve essere “di pancia” per commuovere e far provare emozioni agli astanti. Tutti questi elementi devono convivere in perfetto equilibrio, pena quel certo retrogusto di perplessità che ci invade quando qualcosa di letterario, al contrario, non ci soddisfa pienamente.

E ora proviamo davvero a tradurre.

La traduzione

Il Lonfo non abbaia né ruggisce
e molto raramente emette un barrito,
ma quando soffia il vento, raffica dopo raffica
sbarella un po’ e quatto quatto si rannicchia.

È furbo il Lonfo! È pieno di scaltrezza
perspicacia mal rivolta e sorniona!
Se indugi ti scruta e si appropinqua
se lo tocchi ti morde e ti aggredisce.

Eppure il vecchio Lonfo ottenebrato
che beve e grufola e (censura)
vagheggia intorno, fa lo gnorri;

e quasi quasi in segno di sberleffi
gli molleresti un pugno. Ma lui, zitto
ti fa gli occhioni, ti fa le fusa; e tu l’accarezzi.

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