“IL TRENO DELL’ULTIMA NOTTE” DI DACIA MARAINI

Titolo: Il treno dell’ultima notte

Autrice: Maraini Dacia
Anno: 2008

Editore: Rizzoli

Collana: Scala italiani

Genere: LETTERATURA ITALIANA: TESTI

Descrizione
Emanuele è un bambino ribelle e pieno di vita che vuole costruirsi un paio di ali per volare come gli uccelli. Emanuele ha sempre addosso un odore sottile di piedi sudati e ginocchia scortecciate, l’”odore dell’allegria”. Emanuele si arrampica sui ciliegi e si butta a capofitto in bicicletta giù per strade sterrate. Ma tutto ciò che resta di lui è un pugno di lettere, e un quaderno nascosto in un muro nel ghetto di Lodz. Per ritrovare le sue tracce, Amara, l’inseparabile amica d’infanzia, attraversa l’Europa del 1956 su un treno che si ferma a ogni stazione, ha i sedili decorati con centrini fatti a mano e puzza di capra bollita e sapone al permanganato. Amara visita sgomenta ciò che resta del girone infernale di Auschwitz-Birkenau, percorre le strade di Vienna alla ricerca di sopravvissuti, giunge a Budapest mentre scoppia la rivolta degli ungheresi, e trema con loro quando i colpi dei carri armati russi sventrano i palazzi. Nella sua avventura, e nei destini degli uomini e delle donne con cui si intreccia la sua vita, si rivela il senso della catastrofe e dell’abisso in cui è precipitato il Novecento, e insieme la speranza incoercibile di un mondo diverso.

LA RECENSIONE

Il treno dell’ultima notte di Dacia Maraini
“Una mattina Amara aveva aspettato il piccolo Emanuele per ore sotto il ciliegio di villa Lorenzi su cui avevano l’abitudine di arrampicarsi ogni giorno. Ma lui non era venuto. Così si era inerpicata da sola sull’albero, si era riempita la bocca di ciliegie mature e aveva sputato lontano i noccioli gonfiando d’aria le gote. Intanto teneva d’occhio il viottolo terroso che conduceva verso la villa.”

1956. È l’anno in cui Amara, la protagonista del romanzo Il treno dell’ultima notte di Dacia Maraini, intraprende il viaggio della ricerca, o della memoria. L’anno giusto per ambientare un romanzo – la guerra è finita da undici anni, un tempo non troppo lontano da averla dimenticata o da confondere ogni traccia, non troppo vicino e confuso da rendere impossibile un’indagine, sufficiente per diventare adulti e porsi delle domande. Non solo. Il 1956 è stato l’anno in cui, nel cuore della guerra fredda tra i due mondi polarizzati del capitalismo e del comunismo, i cingoli rintronanti dei carri armati russi nelle strade di Budapest mandarono in frantumi un’utopia.

La ventiseienne Amara (e quanto ci dice il suo nome, quanto ci anticipa sulla conclusione del suo viaggio, senza curarci del motivo per cui i genitori lo scelsero per lei) è una giornalista, la sua intenzione è inviare un reportage della vita dei paesi oltre cortina e, nello stesso tempo, ora che gli archivi dei campi di concentramento nazisti sono sempre più aperti al pubblico per la consultazione, tentare di scoprire che fine abbia fatto il suo amico d’infanzia Emanuele Orenstein, il cui padre era proprietario di una fabbrica di giocattoli a Rifredi, vicino a Firenze, dove il padre di Amara faceva il ciabattino. Ecco che il viaggio di Amara si annuncia fin da subito come un percorso dall’innocenza all’esperienza, su quel treno lento del dopoguerra che richiama l’immagine di treni blindati diretti alla morte. Un viaggio di scoperte molteplici che non sono solo quelle che Amara poteva aspettarsi, un inoltrarsi nella giungla oscura che è poi quella di Cuore di Tenebra che Amara sta leggendo, fino a farle dire, con le parole che Conrad mette in bocca a Marlow, “l’orrore! l’orrore!”.

Ci sono due grandi nuclei narrativi nel romanzo “Il treno dell’ultima notte”, ed un terzo che serve ad unirli. Il primo ruota intorno alla famiglia ebrea degli Orenstein, alla folle decisione presa dalla madre di tornare a Vienna nel 1939, proprio quando i più lungimiranti tra gli ebrei austriaci e tedeschi iniziavano a fuggire da Hitler. Amara porta sempre con sé le lettere che Emanuele le aveva scritto e il quadernetto nero su cui lui aveva indicato il suo indirizzo e che le era stato spedito alla fine della guerra, non si sa da chi. Dapprima erano lettere normali, di un ragazzino ricco in una splendida capitale. Poi si erano fatte più angosciate – l’esproprio della casa, il viaggio (allucinante, quello, con la madre inguaribilmente, stupidamente o forse fortunatamente ottimista) verso il ghetto di Lódz- fino a diventare sempre più disperate, mentre la fame, il freddo, la fatica, il dolore per la morte dei genitori, gli toglievano la voce. Amara rilegge le parole di Emanuele, ricorda il loro amore infantile, quasi si stupisce di averlo tradito ed essersi sposata, anche se poi si è separata dal marito. Sul treno che la porterà in Austria, in Cecoslovacchia e poi in Polonia, Amara conosce un uomo – chiamiamolo pure ‘l’uomo delle gazzelle’, come fa Amara per identificarlo, da un ricamo di gazzelle che si rincorrono sul suo maglione. Diventerà il suo cavalier servente, un accompagnatore innamorato della sua causa (o di lei?) che le fa da interprete, le è vicino ad Auschwitz, la ospita nella casa di suo padre, a Budapest. Perché la rivoluzione del 23 ottobre 1956 è il punto in cui doveva convergere la narrazione – se il nazismo e il mondo concentrazionario che questo aveva creato è la tappa obbligata del viaggio della memoria, il comunismo e il tentativo di reazione a questo doveva per forza essere la sosta di riflessione sul presente dell’Europa spaccata in due.

È un bel libro di Storia e di storie, quello della Maraini, e ci piace di più la Storia quando appare filtrata attraverso i personaggi che quando viene raccontata, in maniera un poco didattica, da uno di loro. Quanto alla fine – diciamo solo che neppure dai campi di concentramento si torna mai, come non si torna mai da nessuna guerra.

Le prime pagine
È un treno lento che arranca sulle rotaie. Si dirige verso nord. Amara se ne sta seduta composta, in preda a una sorta di eccitazione sonnolenta. Il primo lungo viaggio della sua vita. Un treno che si ferma a ogni stazione, ha i sedili decorati da centrini fatti a mano e puzza di capra bollita e di sapone al permanganato. Sono gli odori della guerra fredda che ha diviso i paesi dell’Ovest da quelli dell’Est, segregandoli con muri, fili spinati e soldati armati di fucile.
«La separazione ha visto affermarsi un comunismo sospettoso e aggressivo. E dall’altra parte un anticomunismo altrettanto sospettoso e irruente. Alla fine una parte non sa niente dell’altra. Vogliamo raccontare ai nostri lettori come si vive veramente oltre la cortina di ferro? cosa rimane delle sofferenze della Seconda Guerra Mondiale? cosa del ricordo della Shoah?»
È la voce del direttore del suo giornale che le raccomanda di osservare i dettagli, di parlare con le persone, di rendere conto della vita quotidiana di coloro che stanno nell’Est dell’Europa e poi scrivere. Il direttore è un uomo giovane e bello, completamente calvo. Le ha regalato un sorriso seducente nell’aggiungere che la paga degli articoli sarà bassissima.
«Ma lei, cara Sironi, è all’inizio della sua professione, sa che apprezzo molto la sua chiarezza, ma non potrei dare di più a una neocollaboratrice. In compenso potrà telefonare gratuitamente al giornale e dettare i suoi articoli direttamente ai dimafoni. È la prima volta da anni che le linee internazionali con l’Est funzionano, anche se solo in alcune ore del giorno. Con l’Austria comunicheremo bene, con la Cecoslovacchia e la Polonia, non so. Staremo a vedere. Lei provi. Passi pure in segreteria a prendere il visto speciale per giornalisti.»
Le ha consegnato un foglio con i numeri telefonici delle agenzie giornalistiche italiane nelle varie città d’Europa. Le ha baciato tutte e due le guance con fare paterno e le ha chiuso la porta alle spalle.
Il treno è stato bloccato per ore alla frontiera fra l’Italia e l’Austria, e ora si trova al confine fra l’Austria e la Cecoslovacchia. I militari si sono impossessati dei passaporti e hanno lasciato gli sparuti passeggeri dentro i vagoni chiusi a chiave, al buio, con una sola minuscola luce di servizio.
La locomotiva sbuffa impaziente, pronta a partire, ma è trattenuta da qualcosa di più energico di un motore: la forza oscura e tenace, irriflessiva e ottusa della burocrazia di frontiera. La notte è scesa senza che i viaggiatori se ne accorgessero. Fuori non si sentono che i passi dei soldati. Fa caldo nel vagone sprangato. Con Amara viaggiano due uomini e una giovane madre che tiene in braccio una neonata. Il più anziano fra i due uomini, che indossa una giacca a vento celeste, abbassa a fatica il vetro cigolante. Nell’allungare le braccia mostra ai polsi dei braccialetti di pelliccia.
Una folata di vento fresco entra allegra nella vettura. Amara si affaccia per tirare su col naso un poco di aria pulita. Gli occhi incontrano solo l’oscurità di una notte senza stelle. Lontano, sulla destra, spasimano delle minuscole luci. Un paese? Non si sentono cani abbaiare, né asini ragliare. Sembra di stare sospesi nel vuoto. Un soldato urla. Si avvicina al vagone e batte col calcio del fucile sul finestrino abbassato. È proibito tenere i vetri aperti! Non sono previsti varchi né fessure verso l’esterno su quel treno che ten¬ta di sgusciare, più che da un paese all’altro, da una civiltà all’altra, da una ideologia all’altra, da una mentalità all’altra. Un vecchio treno con pochi passeggeri, una catena di logori vagoni che vogliono forzare le maglie della divisione del mondo. E chi sono questi incoscienti? come osano?

L’autrice

Dacia Maraini è autrice di romanzi, racconti, opere teatrali, poesie, narrazioni autobiografiche e saggi, editi da Rizzoli e tradotti in venti paesi. Nel 1990 ha vinto il Premio Campiello con La lunga vita di Marianna Ucrìa e nel 1999 il Premio Strega con Buio. Scrive sul “Corriere della Sera”. Nel 2006 è uscito nei tascabili Firme Oro il volume dei Romanzi che comprende Memorie di una ladra (1973), Isolina (1985), La lunga vita di Marianna Ucrìa (1990), Bagheria (1993), Voci (1994), Dolce per sé (\997) e Colomba (2004).

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