Ricordando Chechele Jacubino, proprietario del ristorante “La Porta Rossa”

Tutto cominciò nel ’77 in via Brera, al Centro informazioni d’arte di Nencini, titolare anche della galleria Boccioni. Il settimanale “L’Europeo” aveva pubblicato un inserto sui trulli che andavano in rovina, autore Salvatore Giannella; e, con il grande pittore pugliese Filippo Alto, organizzai una serata sull’argomento, invitando a parlare fra gli altri il gastronomo Vincenzo Buonassisi, Guido Le Noci – che nella sua “Apollinaire” aveva ospitato i più grossi nomi dell’arte contemporanea, tra cui Christo Javaceff – e il giornalista e scrittore Domenico Porzio, da pochi giorni tornato da Taranto, che descrisse con vivezza di particolari, nel bene e nel male. Lambros Dose, architetto d’interni, gestore del Cif, introdusse con la lettura di una pagina di Paolo Grassi, tratta dal Libro “In Valle d’Itria cicerone di me stesso” di Pietro Massimo Fumarola.

   Mezz’ora prima della conclusione degli interventi, una sorpresa: alla chetichella, per non disturbare, sfilò un corteo di collaboratori di Chechele Jacubino, proprietario del ristorante “La Porta Rossa”, pugliese purosangue, con abbondanti piatti di prelibatezze della nostra regione da offrire al pubblico, circa 400 persone. Seppi che Chechele, ad Apricena per una visita di qualche giorno, suo paese natale in provincia di Foggia, appena aveva saputo dai giornali della manifestazione, aveva dato disposizioni allo “chef” ed era partito subito per Milano.  Qualcuno ricorda ancora le orecchiette, le mozzarelle, i salumi, il vino buono e quella delizia del pane pugliese, un gioiello uscito dalle stesse mani di Chechele, che da giovane ad Apricena aveva esercitato l’arte del fornaio. Il tutto condito dal sorriso incantato di quell’uomo che in seguito fu indicato come ambasciatore della Puglia a Milano. A proporlo era stato Mario Dilio, giornalista e scrittore barese, che per anni era stato capo ufficio stampa dell’Alfa Romeo. Amico del poeta Vittore Fiore, figlio del grande Tommaso, docente all’Università di Bari, scrittore a sua volta e meridionalista, vincitore nel ’55 del Premio Viareggio con “Un popolo di formiche”, lo disse a Filippo Alto, a me, coinvolgendo un gruppo di commensali seduti al tavolo di fianco al nostro durante una cen. I giornali ripresero le sue parole e Chechele ebbe l’investitura “coram populo”, ”comlpici” i pugliesi che frequentavano il locale, ai quali si aggiungevano spesso rilevanti nomi dello spettacolo, giornalisti famosi, imprenditori, poliziotti della vicina questura…

   Chechele abbracciava tutti; se qualcuno aveva prenotato, lo aspettava sulla soglia e gli andava incontro, Così fece con Giuseppe Giacovazzo, direttore della “Gazzetta del Mezzogiorno”, autore del primo documentario a colori della televisione: su Domenico Cantatore, che era di Ruvo di Puglia. Giacovazzo si presentò dopo mezzanotte in compagnia di Filippo Alto, suo amico dall’adolescenza, cenò e conversò a lungo con Chechele, deciso ad aprire un secondo locale, per il quale aveva già il nome: “Puglia”. Che dopo alcuni mesi fu inaugurato alla presenza di Daniele Piombi. Alla conversazione erano presenti anche Nennella e la figlia Antonietta che si stava laureando in lettere, e il sottoscritto. Ma Chechele aveva la mente fervida, sempre tesa a realizzare nuove imprese. Aveva fantasia, era generoso, schietto, affabile. Un giorno andai a trovarlo assieme a Filippo Alto e ancora prima di salutarci ci spiattellò un’idea che covava da tempo. “Voglio fare qualcosa per dire grazie a Milano. Questa città mi ha dato tante soddisfazioni, mi ha consentito il successo anche attraverso i tanti stranieri che vengono qui, avendo sentito parlare di me”.

   In testa aveva la pubblicazione di un libro con tutte le fotografie che lo ritraggono con le centinaia di personalità che serviva”. “Non sarebbe meglio un premio di giornalismo?”. “Vada per il premio”. Filippo s’incaricò dello statuto, che rivedemmo insieme prima di sottoporlo a Chechele, che lo approvò, e pensammo alla giuria. I primi nomi: i pittori Ibrahim Kodra, Giuseppe Migneco, Mario Bardi; i critici d’arte Raffaele De Grada, Alberi o Sala (e poeta) e Sebastiano Grasso, del “Corriere”. Seguirono i galleristi Mimmo Dabbrescia e Renzo Cortina (era anche libraio in piazza Cavour), i gastronomi Vincenzo Buonassisi e Edoardo Raspelli; il vicedirettore del “Giorno” Ugo Ronfani, grande intellettuale e critico teatrale; Mario Oriani, girettore di “Qui Touring”; lo scrittore Paolo Mosca… E partimmo. La prima edizione venne assegnata a Giovanni Valentini, perché a 29 anni era alla guida de “L’Europeo”; la seconda a Gino Palumbo, direttore de “La Gazzetta dello Sport” (tra l’altro aveva moltiplicato le vendite del giornale); la terza ex aequo a Franco Di Bella, direttore de “Il Corriere della Sera,” e ad Alberto Cavallari, corrispondente da Parigi dello stesso quotidiano. In questa serata, tra gli ospiti c’erano, oltre a Gino Palumbo, il sindaco Carlo Tognoli e il giornalista e scrittore Giovanni Testori.

   I giornali e le televisioni dettero molto spazio all’iniziativa e Chechele gongolava di gioia. Nennella era riservata. La si vedeva soltanto quando, all’inizio della cerimonia, scendeva al braccio del marito la scala che dal piano superiore porta a quello inferiore, sede del Premio.  

   Alla “Porta Rossa” era quasi sempre festa. Ogni tanto nel locale si esibiva qualche cantante pugliese; si tenevano incontri culturali e qualche pittore (Mario Bardi uno dei primi) donava una sua opera che veniva appesa nel punto più in vista o collocata su una mensola, come un faraglione del grande ceramista Giuseppe Rossicone, abruzzese che aveva aperto il proprio laboratorio in via Chiossetto nel 1950. Insomma gli artisti erano di casa in via Vittor Pisani, a pochi passi dalla stazione Centrale.

   Una volta dissi a Chechele che la sua figura richiamava un figurante della commedia napoletana, e che lo avrei visto volentieri nell’”equipe” di Eduardo De Filippo. Sorrise compiaciuto. Era pacato, intelligente, alla mano, dava del tu a tutti, senza curarsi dei ruoli e dell’importanza dell’interlocutore. E la cosa era gradita. Il questore Vito Plantone lo stimava. Lo stimava anche Giacovazzo, che a suo tempo aveva collaborato a Milano con Paolo Grassi.

   Come si fa a non ricordare Michele Jacubino a pochi mesi dalla sua morte (il 26 maggio 2002)? Qualcuno  lo ha anche scritto in questi giorni su Facebook. E lo dicono in tanti, quelli che lo hanno conosciuto personalmente e quelli che ne hanno sentito parlare. Chechele era un personaggio, legatissimo alla sua terra d’origine, amata da Federico II, perché la trovava adatta al suo amore per la caccia. Tra Lucera, Apricena e Foggia il sovrano scrisse il suo trattato di caccia con il falcone. Chechele a volte ricordava il passato della sua città e i resti del Castello di Federico. Quando diceva che era di Apricena gli luccicavano gli occhi e i suoi baffetti neri avevano un piccolo guizzo. Si commuoveva senza darlo a vedere. Aveva un carattere forte. Era stato povero e aiutava quelli che avevano bisogno, con discrezione, secondo il dettato manzoniano. Ne ricordo uno che quasi ogni giorno si sedeva a un tavolo in un angolo, trattato come un cliente normale. I camerieri lo adoravano, Chechele. Uomo dinamico e concreto. Aprì un ristorante a Pugnochiuso nel Gargano, condotto dal figlio Nino, erede delle sue doti.

   Chechele ha lasciato un vuoto in chi gli ha voluto bene e l’ha apprezzato. “Non riesco a credere che questo uomo saggio, comprensivo, buono come il pane, sempre teso verso gli altri, non ci sia più. Ogni volta che passo da Vittor Pisani, davanti al ristorante, non posso fare a meno di pensare a lui”, mi disse un giorno un tecnico pubblicitario (non ne ricordo il nome), amico del pugliese, come qualcuno scherzando chiama ancora oggi Chechele.

   L’ambasciatore della Puglia a Milano è oggi il professor Francesco Lenoci, di Martina Franca, docente all’Università Cattolica di Milano e conferenziere itinerante. Giorni fa ha tenuto una “lectio magistralis” nella tenuta di Albano a Cellino San Marco, in occasione del IV Premio Giuseppe Fasano – Grottaglie città delle ceramiche.  L’anno scorso parlò in una sala del Castello Aragonese durante la mostra del fotografo, un maestro, Cataldo Albano sui sassi di Matera e poi in quella sulla stessa città dei due mari. Lenoci ha tenuto il microfono anche a Verona, nella stessa Matera e in molta parte del resto della penisola, soprattutto nel capoluogo lombardo, oltre che al Rotary di Merate, nei saloni di rappresentanza di alcune banche. Porta sempre un messaggio di pace e dice che la bellezza salverà il mondo.

                                                                                         Franco Presicci

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