San Tommaso Moro, martire FEDELE AL RE MA PRIMA A DIO

Da alcuni anni si parla di “nuova evangelizzazione”, della necessità di un maggiore sforzo di creatività nell’affrontare questo compito essenziale della Chiesa. Quando il discorso rimane solo in superficie si mette in risalto (talvolta unicamente) il suo aspetto organizzativo, il problema metodologico, l’uso intelligente delle scienze umane per essere efficienti ed efficaci nel proprio lavoro. Ma quando il discorso si fa più profondo, si mette l’accento sull’assoluta necessità dei testimoni della fede cristiana, alla quale deve portare questa “nuova evangelizzazione”. Non ci vogliono solamente maestri della fede, più competenti metodologicamente, ma anche e soprattutto di più numerosi e gioiosi testimoni. 

     Uno di questi “santi” o testimoni del passato che “parlano” ancora oggi a noi è certamente san Tommaso Moro. Un santo vittima del potere politico e della sua arroganza, e testimone nello stesso tempo della fedeltà alla propria coscienza e alla legge di Dio fino alla morte. Quando Tommaso Moro (Thomas More era il suo nome) salì sul patibolo per essere decapitato per ordine del re Enrico VIII proclamerà, dopo aver invitato a pregare per lo stesso re “Io muoio fedele a Dio e al re, ma a Dio prima di tutto”.

     Un messaggio valido ancora oggi, perché anche ai nostri giorni c’è sempre un potere politico (ed economico) che non solo vuole la nostra obbedienza e sottomissione acritica ma spesso con i propri mezzi fa di tutto per obliterare la nostra coscienza, asservendola ai propri obiettivi. Tommaso Moro si erge ancora oggi nella sua grandezza di uomo di cultura, e di potere, ma di un potere che ha un chiaro riferimento critico nella propria coscienza e in ultima analisi nello stesso Dio. A Lui si deve non solo onore e gloria ma anche l’obbedienza fino alla morte.

Uomo di grande fede e profonda cultura umanista

     Tommaso Moro nacque nel 1478 a Chelsea, allora sobborgo rurale di Londra oggi uno dei quartieri più “in” della capitale britannica. Figlio di un magistrato, ancora fanciullo e ragazzo entrò come paggio nella residenza di Thomas Morton, (allora arcivescovo di Canterbury, che diventerà poi cancelliere d’Inghilterra e quindi cardinale) per “apprendere la disciplina e le buone maniere”.

     Intraprese all’università di Oxford gli “studia humanitatis”, oggi si direbbe che frequentò la facoltà di Lettere. Questo amore ai classici antichi non lo abbandonerà per tutta la vita. Scrisse anche la vita di un grande umanista italiano, Pico della Mirandola. Fu grande amico di Erasmo da Rotterdam, un grande studioso che fu spesso suo ospite a Londra. Con Erasmo condivise l’ideale di un umanesimo cristiano nutrito dalla pietà dei Padri della Chiesa e dalla saggezza di tanti classici dell’antichità greco-romana. Insieme lottarono contro la Riforma proposta da Lutero, ed in difesa della Chiesa Cattolica. Tommaso fu un umanista che visse la sua fede nella gioia e nella coerenza (sembra che portasse anche il cilicio, come segno di penitenza).

     Si diede agli studi di diritto frequentando il prestigioso Lincoln’s Inn. Poco dopo il 1500 prese dimora presso la Certosa di Londra, per saggiare la propria vocazione ascetica e religiosa. Accortosi di non essere fatto per quello stile di vita, si fece una famiglia, sposando Jane Colt dalla quale avrà tre figlie ed un figlio (risposandosi in seguito appena la prima moglie morì). La gioia ed il calore della sua famiglia lo sosterranno lungo tutta la sua vita, particolarmente durante gli anni della prigionia nella Torre di Londra.

     Impressionante fu la carriera di Tommaso Moro come avvocato e come uomo di potere. Come avvocato arrivò fino alla carica di membro del Consiglio Reale. Diventò membro del Parlamento inglese. Nel 1513 fece parte di una missione diplomatica nelle Fiandre per questioni commerciali, poi un’altra volta rappresentò l’Inghilterra in una controversia con la Francia per problemi di pirateria. Fu designato come consigliere del re, cavaliere, cancelliere dello Scacchiere, speaker della Camera dei Comuni (il parlamento inglese), nel 1524 diventò patrono e censore dell’università di Oxford, e poi sovrintendente di quella di Cambridge. Ma il top della sua carriera politica lo toccò nel 1529 quando fu nominato cancelliere del regno di Inghilterra, oggi diremmo primo ministro. Come si vede, una vita molto intensa, piena di impegni pubblici e di alte responsabilità.

“e se tra i due il diavolo avesse ragione…”

     Una domanda d’obbligo: la sua vita spirituale come si conciliava con tutta questa attività? Scrive A. Turchini: “Di Moro si segnalano le qualità morali ed intellettuali, un solido buon senso ed un certo humour, la semplicità e la modestia, la finezza ed il gusto. Moro soleva alzarsi giornalmente alle due del mattino per pregare e studiare fino alle sette, quindi ascoltava la messa, recitava le preghiere, i sette salmi penitenziali e le litanie e compiva tutta una serie di pratiche devote nei vari momenti non solo della giornata, ma anche della settimana e dell’anno, ancor più quando, nell’ultima decade della sua vita, costruì una cappella in casa per potersi dedicare più intensamente al culto”. Come si vede il Moro era un uomo di grande azione e di grande orazione e pietà.

     Tommaso rimase famoso per la sua integrità morale. La verità era la sua stella polare, la giustizia per tutti la grande priorità della sua vita da avvocato e da politico. Il marito di Meg, una delle sue figlie, ci ha tramandato il resoconto di un dialogo con il Moro.

     “Sir Thomas – disse il marito dell’altra figlia Elisabeth – posso fare una considerazione?”. “Di’ pure figliolo, rispose il Moro. “Quando Lord cancelliere era Wolsey, non solo molti dei suoi segretari, ma qualcuno dei suoi semplici uscieri si sono fatta una fortuna”. “Buon per loro – rispose il Moro – anche se non approvo la fortuna fatta con l’aiuto del potere. Tutte qui le considerazioni, William?”. “No, Signore, naturalmente. Volevo dire che adesso che siete voi il Lord Cancelliere, mi sembrerebbe giusto che anch’io, essendo marito di vostra figlia ed uno dei vostri segretari potessi trarne qualche profitto”. “Dato che ciò che è mio è anche vostro – rispose Moro – se io godo di qualche beneficio in conseguenza della mia nuova posizione, ne godete anche voi. Questo è un profitto”. “È giusto, Signore. Ma vedete chi di solito sta attorno ad una persona importante acquista meriti accogliendo per esempio tutti coloro che vogliono essere ricevuti, e costoro, in cambio del favore, fanno doni a volte molto consistenti…”. “Povero William – sorrise di gusto Moro – ma via, hai tutto quanto hai bisogno, cerca di accontentartene. Non mi piace che si mercanteggi attorno a me… Anzi ti dirò di più e puoi esserne certo che se fossi chiamato a giudicare una causa e i due contendenti fossero un mio stretto parente e l’altro il diavolo, e quest’ultimo avesse ragione, ti assicuro che sarebbe lui, il diavolo a vincere la causa”. Questo piccolo dialogo ci mostra che cosa Tommaso Moro pensava del potere: una occasione di servizio, non certo per arricchirsi e arricchire gli amici o parenti (nepotismo).

Davanti al terribile dilemma: fedeltà al re o a Dio ?
Tommaso Moro fu anche uno scrittore. Tra le sue opere ricordiamo “Utopia” e “Il Dialogo del conforto contro le tribolazioni”. Quest’ultima è “uno dei più grandi dialoghi della lingua inglese, ed uno dei capolavori nella lunga tradizione classica patristica e medievale dei libri di consolazione” (R.J. Schoek). Durante la prigionia scrisse pure un “Trattato sulla Passione”.

     E il momento della passione vera e propria arrivò anche per lui. Una passione fatta di prigione dura nel 1534 e nel 1535, di solitudine, privazioni e calunnie, fino a quando venne decapitato per ordine del re Enrico VIII. Il Moro infatti si era rifiutato di prendere posizione netta nella controversia sul divorzio reale. Il re inglese ripudiò Caterina d’Aragona e sposò Anna Bolena, fino a staccare la Chiesa d’Inghilterra da quella Cattolica di Roma (nasceva così la Chiesa Anglicana). Lo scisma fu consumato per i capricci e per calcolo politico, ma Tommaso Moro non sottoscrisse l’auto proclamazione di Enrico VIII anche a capo della Chiesa.

     È proprio nei momenti di crisi o di passione che si mostra la saldezza della vita spirituale. Il Moro lo dimostrò ampiamente da come affrontò la prigionia e la stessa morte. In prigione fu confortato dai suoi amici ma specialmente dai familiari. Tra questi si distinse la figlia Meg che lo accompagnò fino al patibolo. In uno di questi colloqui alla diletta figlia che gli diceva dell’angoscia dei familiari per la sua sorte, il Moro rispose: “Qualunque essa sia, Meg, sappi che per ora la solitudine e la limitata libertà non mi pesano, e che quelli che mi hanno rinchiuso qui dentro si sbagliano se pensano di avermi dato un grande dolore. Qui dentro sento Dio vicino come in nessun altro momento della mia vita. E credimi, Dio è molto buono con me, a volte direi che mi tiene tra le sue braccia e mi culla viziandomi come un bambino…”. Tommaso Moro affrontò gli anni di prigione con estremo coraggio e nessun cedimento della propria fede in Dio. E la propria morte la affrontò non solo con coraggio ma anche con… humour (dettato dal carattere sì ma anche dalla grande fede in Dio).

     Anche durante gli anni della prigionia gli fu di grande conforto (anche materiale) l’amicizia con un ricco mercante italiano, un certo Antonio Bonvisi. Questi gli mandò un abito nuovissimo che il Moro voleva indossare per il giorno della esecuzione proprio perché lo considerava il suo giorno più importante. Non glielo permisero. La scusa? L’abito non doveva finire nelle mani del boia. Ma il Moro ebbe un delicato pensiero anche per quest’ultimo: gli fece regalare una moneta d’oro per… il servizio, dicendogli: “Amico io sono pronto e tu fatti coraggio… Ti avverto che ho il collo corto e perciò state attento a colpire giusto per non macchiare la tua buona fama”. Incredibile.

  Le ultime parole non furono di protesta e di odio ma di perdono e fedeltà al re, ma prima di tutto a Dio.

 

Preghiera di San Tommaso Moro

Signore, dammi una buona digestione, e anche qualcosa da digerire.
Dammi un corpo sano, Signore, e la saggezza per conservarlo tale.
Dammi una mente sana, che sappia penetrare la verità con chiarezza,
e alla vista del peccato non si sgomenti, ma cerchi una via per correggerlo.
Dammi un’anima sana Signore, che non si avvilisca in lamentele e sospiri.
E non lasciare che mi preoccupi eccessivamente Di quella cosa incontentabile che si chiama “io”.
Signore, dammi il senso dell’umorismo:

dammi la grazia di cogliere uno scherzo, per trarre qualche allegrezza dalla vita,
e per trasmetterla agli altri. Amen.

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IL PROCESSO E LA CONDANNA A MORTE DI TOMMASO MORO
di Orazio Dente Gattola
Dammi la grazia, Signore, che quanto è oggetto delle mie preghiere sia oggetto anche delle mie opere

 

1       Tommaso Moro nacque il 7 febbraio 1477 (o 1478) da una famiglia borghese. Ad appena 13 anni nel 1490 divenne paggio di John Morton cancelliere del Re d’Inghilterra e futuro cardinale. Negli anni dal 1492 al 1500 si dedicò agli studi giuridici e nel 1499 conobbe Erasmo da Rotterdam al quale rimarrà legato da una profonda amicizia. Nel 1504 entrò alla Camera dei Comuni della quale speaker percorrendo nel frattempo i gradi della carriera universitaria divenendo nel 1514 lent reeder del Lincoln’s Inn.

Nel 1515 partecipò ad una missione diplomatica. Seguirono negli anni successivi incarichi pubblici sempre più importanti sinchè nel 1527 seguì il card. Wolsey in una missione sul continente ricevendo l’anno dopo l’incarico di confutare le tesi dei riformati.

Nel 1529 giunse al culmine della carriera divenendo, a seguito della caduta in disgrazia del card. Wolsey cancelliere del regno e ciò dopo avere partecipato alla conferenza di Cambrai.

Tre anni dopo restituì il sigillo di cancelliere adducendo motivi di salute: egli, in realtà, si ritirò a vita privata in quanto non condivide le decisioni di Enrico VIII sul divorzio dalla regina Caterina ed avendo ben compreso a quali conseguenze essa avrebbe portato.

Invitato a prendere posizione sulla questione del divorzio il 13 aprile 1534 si presentò a palazzo Lambeth rifiutando di sottoscrivere, per le sue implicazioni sul piano della fede l’atto di successione votato dai Lords il 23 marzo e viene incarcerato nella Torre il successivo 17 aprile.

Fu sottoposto ad interrogatorio il 30 aprile, il 7 maggio, il 3 ed il 14 giugno 1535 ed il 1 luglio venne condannato a morte per “avere parlato del re in modo malizioso….e diabolico”.

Il 6 luglio alle 9 viene decapitato e non impiccato, come avrebbe voluto l’accusa di tradimento, per intercessione del re.

Per condannarlo si dovette ricorrere alla falsa testimonianza di tale Rich che verrà, qualche tempo dopo ricompensato con il titolo di Lord.

Venne provalamato beato da Leone XIII e santo il 19 maggio 1935 da Pio XI.

Con un “motu proprio” del 31 ottobre 2000 Giovanni Paolo II lo ha proclamato protettore dei politici.

 

2       Di lui Erasmo da Rotterdam ebbe a scrivere: È’ un credente ardentemente ansioso di verace religiosità, quantunque sia agli antipodi di ogni superstizione. Si riserva determinate ore per pregare Dio e onorarlo, non con formule bell’e fatte ma con quelle che gli detta il cuore. Quando discute con gli amici della vita futura, si sente che rivela il fondo della sua anima e che vibra di speranza. Ecco cos’è Moro attivo in piena Corte: dopo di lui qualcuno crede che non si troveranno più cristiani fuori dei conventi.

Giovanni Paolo II nell’Angelus del 5 novembre 2000 ha detto: è spontaneo andare con la mente alla figura luminosa di san Tommaso Moro, esempio straordinario di libertà e di aderenza alla legge della coscienza di fronte a richieste moralmente insostenibili, anche se autorevoli.

3       Pochi giorni essere stato portato nella Tone di Londra, il 17 aprile 1534 egli scrive alla figlia prediletta Margareth: Quando giunsi a Lambeth, fui il primo ad essere chiamato davanti ai Consiglieri, sebbene il Vicario di Croydon e molti altri fossero arrivati in precedenza. Reso edotto del motivo di quella convocazione (di cui mi meravigliai considerando che nessun laico era stato convocato all’infuori di me), chiesi di leggere la formula del giuramento che essi mi mostrarono munita del Gran Sigillo. Poi chiesi di leggere l’ Atto di Successione, di cui mi fu consegnato un esemplare stampato. Dopo aver letto in silenzio ed aver riflettuto sulla formula del giuramento, dichiarai ai Consiglieri che non era mio intendimento censurare né l’Atto e chi l’a-veva formulato, né il giuramento e chi l’aveva prestato; nè condannare alcuno. La mia coscienza però mi vietava di giurare, non per quanto disposto dall’Atto di Successione, ma perché, prestando il giuramento nella forma in cui era redatto, rischiavo di esporre l’anima mia a dannazione eterna. E se essi pensavano che il mio rifiuto non era determinato da un mero scrupolo di coscienza ma dalla influenza di altra fantasia. ero pronto a rassicurarli in proposito con un giuramento. Se poi a questo essi non erano disposti a credere. a che sarebbe valso un qualsiasi altro mio giuramento? Se invece vi credevano. mi affidavo alla loro generosità affinché desistessero dal sollecitarmi a prestare un giuramento in contrasto con la mia coscienza.

Il Lord Cancelliere espresse rammarico per le mie parole e per il rifiuto. E gli altri Consiglieri aggiunsero che, in fede loro, io ero il primo a rifiutare provocando così  nella Maestà del Re gravi sospetti e una violenta indignazione a mio riguardo.

Appare chiaro sin dal primo interrogatorio che Moro è stato incarcerato non per qualcosa che ha fatto ma per non averla fatta e cioè per non essersi piegato alla volontà del sovrano, deciso a rompere con il Papa che non consentiva al divorzio.

Nel 1532 egli restituì il sigillo di cancelliere che per la prima volta era stato concesso ad un laico avendo ben compreso dove avrebbe portato l’infatuazione di Enrico VIII per Anna Bolena.

Non è sufficiente che egli si sia privato, senza esserne stato richiesto, del potere, ma occorre che egli si pieghi alla volontà reale. E’ uomo troppo noto per le cariche che ha ricoperto, per la corrispondenza che egli intrattiene con i grandi del suo tempo, primo tra tutti Erasmo, per la sua attività di avvocato e di giudice perché egli possa riuscire nel suo intento di essere lasciato nella quiete della sua casa di Chelsea. Occorre che egli aderisca alla chiesa che sta staccandosi da Roma.

E più avanti nella stessa lettera egli dice alla figlia di essersi offerto di prestare il giuramento se qualcuno fosse riuscito a confutare tali ragioni in modo da tranquillizzare la mia coscienza.

Il tema della coscienza ritorna più volte nella lettera: ad un certo punto egli dice non riuscii a non dire altro se non che io non potevo farlo perché, secondo la mia coscienza si trattava di un caso in cui ero costretto a non obbedire al mio Re.

In questa posizione Tommaso Moro rimase isolato. Fu letteralmente l’unico laico in tutta l’Inghilterra a non giurare. Nella stessa Chiesa furono pochi coloro che si opposero alla richiesta del re: vi si opposero solo il vescovo di Rochester John Fisher ed alcuni certosini i quali tutti salirono sul patibolo prima di lui: con ogni probabilità si voleva esercitare l’ultima pressione per piegare Moro il cui prestigio in Inghilterra e all’estero era enorme.

4       Ricostruiamo brevemente gli avvenimenti.

Il 23 maggio 1533 il Vescovo Cranmer dichiarò nullo il matrimonio tra Enrico VIII e Caterina d’Aragona per avere il sovrano sposato la vedova del fratello. La pretestuosità delle argomentazioni usate per sciogliere il vincolo matrimoniale si evince dalla circostanza che lo scioglimento intervenne a ben 24 anni dalla celebrazione del matrimonio. Il 28 lo stesso prelato provvide a dichiarare valido il matrimonio con Anna Bolena che venne incoronata regina il 1 giugno successivo. Il 15 gennaio 1534 venne riconvocato il Parlamento per legalizzare la situazione della discendenza.

Dal punto di vista legale non vi era in effetti alcuna necessità di intervenire dal momento che la bolla papale con la quale era stato riconosciuto il padre del re, Enrico VII, era formulata in termini tali da rendere superflua una modifica. La formula “diretti legittimi discendenti” in essa usata era tale da potersi adattare anche alla figlia nata dalla nuova unione, la futura regina Elisabetta, in realtà si volle dare un ulteriore riconoscimento alla situazione che si era venuta a creare.

Di qui deriva il primo atto di successione (gennaio – marzo 1534) nel quale non solo si provvide a legittimare più chiaramente la futura discendenza del re, ma si affermò che  «il vescovo di Roma e la Sede Apostolica, contravvenendo alle auguste e inviolabili prerogative da Dio direttamente conferite agli imperatori, i re e i principi in materia di successione al trono, ha preteso in passato di disporre della successione in altrui regni e domini a suo piacimento: ciò che noi, Vostri umilissimi sudditi sia ecclesiastici che laici [in questo Parlamento], sommamente aborriamo e detestiamo».

Si delinea con chiarezza il distacco da Roma volendosi escludere ogni possibilità per il  Papa di deporre il sovrano in virtù  di un potere che gli era riconosciuto e del quale, però, dai lontani anni del medioevo si faceva più uso pur non essendo mai intervenuta una formale rinuncia al riguardo.

Anni prima (1521), proprio conversando con Moro, il sovrano non aveva avuto difficoltà nell’ammettere di derivare il suo potere dal Papa.

Prosegue l’atto: [. ..] che il matrimonio precedentemente celebrato tra Vostra Altezza e Lady Caterina, già moglie legittima del Vostro fratello maggiore principe Arturo e da lui carnalmente conosciuta -come è stato debitamente e sufficientemente provato nel corso del regolare procedimento svolto e conclusosi davanti all’arcivescovo Thomas [Cranmer], per benevolenza di Dio attuale arcivescovo di Canterbury e metropolita e primate di questo regno -per delibera di questo Parlamento sia definitivamente, manifestamente e inoppugnabilmente dichiarato, giudicato e sentenziato contrario alle leggi di Dio Onnipotente, e sia inoltre riconosciuto, inteso e considerato privo di alcuna validità ed efficacia e totalmente nullo e abrogato; e che il suo scioglimento, pronunciato dal suddetto arcivescovo, abbia validità ed efficacia a tutti i fini ed effetti, nulli essendo ogni e qualsivoglia licenza, dispensa od altri atti ad esso precedenti o seguenti in qualsiasi modo esprimentisi in senso contrario; e che ogni licenza e dispensa del genere, atto od atti ed ancora quasi che il re si preoccupasse di evitare ad altri il pericolo di cadere nel medesimo errore in cui asseriva di essere incorso lui stesso l’atto prosegue: “[. ..] i quali matrimoni, benché manifestamente vietati e aborriti dalle leggi di Dio, tuttavia hanno avuto talvolta luogo a motivo di presunte dispense accordate dal potere di un uomo: un potere che altro non è se non usurpato, e che di diritto non può essere riconosciuto, accordato o concesso, perché nessun uomo, di qualsiasi stato, grado o condizione ha potere di dispensare dalle leggi di Dio, come confermano e pensano la totalità del clero di questo regno riunito in Convocazione e la maggioranza delle famose Università dell’intera cristianità, e come afferma e ritiene questo Parlamento.

Lo scisma si è, a questo punto, consumato.

Non è consentito secondo l’atto di successione il dissenso in quanto chiunque: “per mezzo di scritti a mano o a stampa, o di qualsiasi azione o attività manifesta, dolosamente promuovano o mettano in atto o facciano promuovere o mettere in atto qualsiasi cosa o cose a pregiudizio della Vostra regale persona; o per mezzo di scritti a mano o a stampa od altra azione o attività diano dolosamente occasione di perturbazione o impedimento nel godimento della corona di questo regno da parte di Vostra Maestà; per mezzo di scritti a mano o a stampa o di qualsiasi altra azione promuovano o mettano in atto o facciano promuovere o mettere in atto qualsiasi cosa o cose a pregiudizio, diffamazione, perturbazione o detrimento del predetto legittimo matrimonio celebrato fra Vostra Maestà e la regina Anna, o a nocumento, diffamazione o destituzione di qualcuno dei discendenti ed eredi di Vostra Altezza…….secondo quanto sopra stabilito dal presente Atto; che dunque colui o coloro che, sudditi di questo regno o in esso residenti, di qualsiasi stato, grado o condizione, si siano resi colpevoli dei predetti delitti, come pure i loro favoreggiatori, istigatori, sostenitori e complici, per qualsiasi dei suddetti crimini siano individualmente giudicati rei di alto tradimento [. ..]

La pena era quella della morte seguita dalla confisca di tutti i beni. Tale pena si applicava anche a chi  verbalmente, con qualsiasi parola non scritta nè accompagnata da azioni o attività manifeste, dolosamente e pervicacemente proferiranno, propagheranno o diffonderanno qualsiasi cosa o cose a pregiudizio di Vostra Altezza, o a pregiudizio o diffamazione del matrimonio celebrato fra Vostra Altezza e la suddetta regina Anna [. ..]

Non ritenendosi ciò sufficiente i sudditi erano tenuti a prestare il giuramento secondo quanto si legge nel passo successivo E, al fine che la successione della Vostra regale Maestà sia sancita in maniera ancora più certa, in conformità al tenore e alla forma del presente Atto, per delibera di questo Parlamento sia inoltre decretato che d’oggi in  avanti tanto i nobili spirituali e temporali [ = i vescovi e i Lords] quanto tutti gli altri Vostri sudditi viventi attualmente maggiorenni (e in seguito tutti gli altri al compimento della maggiore età), ogni volta e in qualsiasi momento che, per ordine di Vostra Altezza o dei suoi eredi e a loro piacimento, Vostra Altezza o i suoi eredi dispongano, siano tenuti a giurare in forma solenne, alla presenza di Vostra Altezza o dei suoi eredi o di chiunque altro Vostra Maestà o i suoi eredi delegheranno a tal fine, di osservare, adempiere, mantenere, difendere e custodire con tutte le loro forze, capacità e intelligenza, lealmente, fermamente e costantemente, senza frode ne inganno, tutti gli effetti e i contenuti del presente Atto.

Era previsto che l’atto entrasse in vigore il 1 maggio 1534 ma già il 13 aprile il vescovo Fisher che era assente dalla Camera il giorno in cui esso venne promulgato fu convocato a palazzo Lambeth dove lo fu anche Tommaso Moro nonostante che non fosse membro del Parlamento e non rivestisse più alcuna carica pubblica.

Lo zelo dell’ Arcivescovo Cranmer e dei suoi si spinse sino al punto di ampliare la  formula approvata dal Parlamento e fu questa versione allargata che fu sottoposta a Fisher e a Moro.

Essa suonava: Giurate di dare fede, fedeltà e obbedienza unicamente alla Maestà del re e ai suoi diretti discendenti così come indicati e definiti nel sopraddetto Statuto di Successione, e a nessun’altra autorità, principe o potentato entro o fuori i confini di questo regno; e di considerare quindi nullo e senza valore qualsiasi eventuale giuramento da voi in qualsiasi momento prestato o da prestarsi a qualsiasi altra persona o persone; e di osservare, custodire, mantenere e difendere con tutte le vostre forze, capacità e intelligenza, senza inganno, frode od altri espedienti illeciti, l’ Atto sopra specificato e tutti i suoi contenuti ed effetti -come pure tutti gli altri Atti e Statuti promulgati dall’ apertura deI1’attuale Parlamento a sua ratifica o esecuzione o a ratifica o esecuzione di qualunque cosa in esso contenuta -contro qualsiasi persona o persone, di qualsiasi stato, ufficio, grado o condizione; e di non fare o intraprendere in alcuna maniera o, per ciò che è in vostro potere, di non consentire in alcuna maniera che venga fatta o intrapresa, direttamente o indirettamente, in via segreta o manifesta, qualsiasi Cosa o Cose a ostacolo, impedimento, danno o detrimento del predetto Atto o di ‘ qualsiasi sua parte, con qualsiasi mezzo o per qualsiasi causa o pretesto. Così vi aiutino Dio e tutti i santi.

 

5       Dell’interrogatorio al quale venne sottoposto Moro fece un resoconto nella vivida lettera inviata qualche giorno (il 17) dopo il suo incarceramento nella Torre alla prediletta figlia Margareth.

Ritenendo che nell’esaminare una vicenda storica occorra riportarsi il più possibile ai documenti in modo da non tradire il pensiero delle persone o travisare i fatti dei quali esse furono protagoniste riporto qui di seguito ampi stralci di una lunga lettera che Tommaso Moro inviò il 5 marzo 1534 dal suo rifugio di Chelsea a Thomas Cromwel .

Essa è molto importante in quanto Tommaso Moro sintetizza in essa il suo pensiero sul matrimonio del re e sul distacco della chiesa d’Inghilterra da Roma.

Egli apparentemente non prende posizione nella disputa ma lascia trasparire chiaramente il suo pensiero in assoluta coerenza a quella che sarà la sua linea di condotta sino alla fine e che abbandonerò solo nel momento in cui sarà chiara la sua sorte.

Questo comportamento non è il frutto di pavidità o di ambiguità , ché, se fosse stato così, egli non avrebbe esitato nemmeno un istante ad accogliere l’invito a prestare il giuramento che gli veniva chiesto da Erasmo da Rotterdam in ansia per le sue sorti o, quello ben più pressante che gli veniva dai suoi stessi familiari.

Quella di Tommaso Moro è una scelta che viene dalla fede, dal desiderio di comprendere quale sia il disegno di Dio su di lui. Un passaggio della sua lettera all’ arcivescovo Cranmer del 5 marzo ce lo fa comprendere.

Egli scrive: Ora, è un fatto che prima del mio viaggio oltremare avevo sentito parlare di certe obiezioni contro la bolla della dispensa, riguardanti le parole del Levitico 2 e del Deuteronomio 3, e secondo le quali la proibizione era de iure divino, ma a quel tempo non mi resi conto se non che le maggiori speranze nella questione stavano in certi vizi trovati nella bolla, per i quali essa doveva considerarsi giuridicamente nulla.

Ma il re non appare pago di questa soluzione  ed infatti in proposito c’era tanta fiducia, a quanto sentire per parecchio tempo, che i consiglieri di opposto parere furono ben lieti di accampare un breve che secondo loro doveva porre rimedio a quei vizi; ma il Consiglio del Re sospettava dell’attendibilità di quel breve: di conseguenza si fecero grandi indagini per chiarire quel punto, e cosa ne venisse poi fuori o non l’ho mai saputo o non lo ricordo. Ma Vi richiamo ora queste cose affinché sappiate che la prima volta che sentii parlare della questione, del fatto cioè che il matrimonio era tanto contrario alla legge naturale, fu quando il grazioso Re, come avevo preso a dirvi, me lo disse egli stesso, e mi presentò davanti la Bibbia aperta e vi lesse le parole che inducevano Sua Altezza e molte altre dotte persone a pensarla cosl, e mi chiese poi che cosa ne pensavo io. Allora, pur non aspettandomi di certo che Sua Altezza avesse in ogni modo a prendere quel punto come più o meno chiarito a seconda del mio povero parere su una cosl grave materia, tuttavia com’era mio dovere al suo ordine esposi quale fosse il mio pensiero sulle parole che vi leggevo. …. e questi illustrissimi signori, non ne dubito affatto, hanno riferito e riferiranno a Sua Altezza che non trovarono mai in me animo o modi ostinati, ma una mente tanto aperta e compiacente quanto si può ragionevolmente desiderare in una questione in discussione. Allorchè in seguito Sua Altezza Reale fu informata sia da loro che da me della mia povera opinione sul problema …. prendendo per il verso migliore la buona volontà sulla questione, nella sua benedetta disposizione d’animo ricorse per il proseguimento degli studi sul suo grande problema solo a quelli la cui coscienza egli sapeva bene esser del tutto incline a quella soluzione, e si servl di me e d’ogni altro che Sua Altezza aveva compreso essere di differente avviso, in altri suoi affari, …..

Dunque Tommaso Moro espresse la sua opinione al re che decise di avvalersi di altri consiglieri nella questione ed infatti Dopo di ciò non feci mai più nulla in proposito, non una parola ne scrissi per contrastare la tesi di Sua Grazia, ne prima ne dopo, e nessuno lo fece per mia istigazione, ma disponendo in pace la mia mente a servire Sua Grazia in altre cose,,,,

Appare chiaro dai passaggi da ultimo riportati come egli non abbia approvato la decisione del sovrano pur continuando a servirlo con fedeltà e a professare la sua lealtà nei suoi confronti come del resto farà sin sul patibolo.

Un segnale, a ben guardare, egli comunque lo ha dato nel momento in cui ha ritenuto di non  presenziare alle nuove nozze del re.

Quello che gli preme è di non venir meno da un lato a quanto gli detta la coscienza e dall’altro di non venire ai suoi obblighi di fedeltà verso il sovrano.

E più avanti nella stessa lettera egli chiarisce che Oltre a ciò, in varie altre occasioni mantenni una linea di condotta dalla quale, a riparlarne, apparirebbe chiaro che mai verso il matrimonio del Re ho avuto un atteggiamento tale da dargli comunque occasione di indignarsi di me,… Sono io invece uno dei tanti che, sudditi fedeli di Sua Grazia il Re, il quale è padrone del suo matrimonio, e la sua nobile dama una reale Regina, non mormorano ne disputano pur ribadendo che…. in fede mia non ho mai sentito ne letto sulla tesi opposta nulla di così convincente da tranquillizzarmi del tutto la coscienza; anzi, semmai me la sentirei in gran pericolo se seguendo questa tesi dovessi negare che li primato è stato istituito da Dio.

Tommaso Moro, politico e giurista esperto, ha ben compreso sin dall’inizio che non si trattava della nullità o meno della bolla con la quale a suo tempo era stata concessa la dispensa per le precedenti nozze della regina Caterina ma dello scisma essendo divenuto ormai insanabile il contrasto tra il Papa ed Enrico VIII ed infatti egli prosegue: Se noi lo negassimo, come vi dichiarai, non riesco a capire quali vantaggi deriverebbero .da questa negazione, perché il primato è stato per lo meno istituito dal corpo della Cristianità, per la grande e imminente ragione di evitare gli scismi, e corroborato con una successione continua per uno spazio di oltre mille anni, perche tanti ne sono quasi passati dal tempo di san Gregorio. E allora, se tutta la Cristianità è un solo corpo, non riesco a capire come un qualsiasi suo membro potrebbe, senza il generale consenso del corpo, staccarsi dal comune capo….mi pare nella mia povera mente che la causa di Sua Grazia non avrebbe alcun vantaggio…E così io, buon signor Cromwell…. Vi prego per amore di nostro Signore di non essere tanto stanco della mia faticosa supplica da non compiacervi di informare pienamente, per Vostra bontà, Sua Altezza….della mia leale fedeltà…. Non posso infatti trovare nel mio cuore altro da dire se non ciò che mi detta la mia coscienza, e questo non ha mai prodotto nulla che potesse offendere il Re, per ostinazione d’animo o volontà incline al male: è invece una coscienza timorata che può turbarsi per mancanza di miglior consiglio, ma senza mai dimenticare il mio grande dovere verso la Sua nobile Grazia, … Così termino il mio lungo e noioso discorso, supplicando la santa Trinità di mantenervi nella salute del corpo e dell’anima, per la grande bontà che mi dimostrate e il grande conforto che mi date, e di ricompensarvi in cielo. Chelsea, il 5 di marzo. Obbligatissimo Vostro Tho. More, Cav.

Dunque al disopra di tutto viene posta la coscienza che accampa i suoi diritti.

In effetti egli compare innanzi ai suoi giudici essendo chiaro – come scrive alla dolce figlia Margareth nella lettera del 17 aprile 1534 – che giurare era contrario alla mia coscienza.

Il problema non è solo religioso o politico ma attiene alla stessa libertà dell’uomo per interessare alla fine il fondamentale diritto a non prestare ossequio ad una legge che interferisca con la sfera interna dell’individuo. Posta in questi termini la questione il processo a Tommaso Moro cessa di essere un momento della storia inglese per assumere una dimensione universale.

Nell’atto di supremazia approvato nel novembre del 1534 era stabilito che il re nostro sovrano, come pure i suoi eredi e successori re di questo regno, sia riconosciuto, accettato e reputato quale solo e supremo capo della Chiesa inglese, o Anglicana Ecclesia, sopra la terra. Il documento prosegue conferendo al sovrano poteri illimitati per quanto concerneva ogni aspetto della vita religiosa e gli attribuiva in sostanza poteri sostanzialmente identici a quelli spettanti al Papa sulla Chiesa universale.

 

6       Nel 1535 entra in vigore l’atto sui tradimenti in virtù del quale chiunque dolosamente – da solo od in concorso con altri con parole o con scritti intenda, si proponga o desideri, o di fatto progetti, trami, tenti o perpetri alcunché inteso a recare fisicamente danno alla regale persona del Re, della Regina o dei loro legittimi eredi, od a privarli, o a privare qualsivoglia di loro, della dignità, il titolo o gli appellativi della loro regale condizione; o calunniosamente e dolosamente propagandi o asseveri esplicitamente con parole o con scritti che il Re nostro sovrano e signore è eretico, scismatico, tiranno, fedifrago o usurpatore della corona; che dunque, a partire dal predetto 10 febbraio [1535 n.d.a.], chiunque, da solo od in concorso con altri, incorra in qualsiasi dei su elencati delitti….come pure i suoi complici, conniventi, istigatori e favoreggiatori – sia giudicato reo di tradimento; e che qualunque dei reati sopra indicati perpetrato o commesso dopo il detto lo febbraio sia considerato, riconosciuto e giudicato alto tradimento; e che i rei….. abbiano a ricevere e subire la pena di morte…..nelle forme e i modi stabiliti e consueti nei casi di alto tradimento.

I passaggi fondamentali che porteranno Tommaso Moro sul patibolo sono sostanzialmente due: la privazione anche della regina della dignità e la calunniosità, tra l’altro, delle accuse al re di essere fedifrago dalle quali si coglie appieno quali siano le motivazioni di fondo che spingono il re e l’intera chiesa d’Inghilterra allo scisma.

Per ben due volte nell’atto si dice che anche le parole possano integrare gli estremi del tradimento.

Nei confronti di Moro e del vescovo Fisher, nominato cardinale alla vigilia dell’esecuzione durante la sua prigionia nella Torre, si andò oltre l’atto sui tradimenti facendosi ricorso alla procedura della proscrizione che consentiva un processo senza prove legali e ciò per evitare che emergesse che in realtà i due non si erano macchiati di nessun reato.

Il 28 giugno 1535 la commissione di inchiesta dell’alta corte di giustizia dichiarò legittima l’accusa nei confronti dell’ex cancelliere e lo rinviò a giudizio per il 1 luglio.

L’atto di accusa si conclude con una condanna anticipata: Per questi motivi, la predetta Commissione inquirente dichiara che <<il sunnominato Tommaso Moro perfidamente, proditoriamente e dolosamente ha di fatto progettato, tramato, tentato e perpetrato di privare interamente il predetto serenissimo Re nostro sovrano dei suddetti dignità, titolo e appellativo della sua regale condizione -e cioè della sua dignità, titolo e appellativo di capo supremo della Chiesa inglese sopra la Terra -a manifesto spregio dello stesso Re e sovrano e detrimento della sua regale corona, contro la forma e gli effetti dei predetti Statuti e contro la pace dello stesso Re e sovrano>>.

All’epoca si partiva dal presupposto della colpevolezza dell’imputato, gli si negava l’assistenza di un difensore o di portare prove a suo discarico e di prendere visione di cosa era accusato, fatto questo che apprendeva solo con la lettura dell’imputazione. Quanto all’indipendenza dei giudici erano prassi costante le pressioni perché emanassero verdetti graditi al re.

Quanto fossero indipendenti i giudici lo dimostra questo passo della Paris News Letter uno dei resoconti dell’epoca: Messer Tommaso Moro, già Lord Cancelliere d’lnghilterra, venne condotto il lo luglio 1535 davanti ai giudici delegati dal re. E dopo che in sua presenza venne data lettura delle imputazioni e delle allegazioni a suo carico, il Lord Cancelliere e il duca di Norfolk gli si rivolsero con queste parole: «Messer Moro, vedete bene che siete colpevole di un grave delitto di lesa Maestà; tuttavia, la generosità e la clemenza del re sono tali da indurci a confidare che, se vorrete pentirvi e ritrattare la caparbia opinione (emerge qui ancora una volta come quello attribuito a Tommaso Moro fosse un reato di opinione) in cui avete così temerariamente persistito, potrete ottenere il suo grazioso perdono».

Per quanto è dato dedurre dagli atti e dai resoconti che ci sono pervenuti la linea di difesa che Moro assunse fu quella di rivendicare il primato della coscienza per cui ognuno deve scegliere tra l’osservanza della legge di Dio e quella degli uomini.

Risposi che secondo la mia coscienza, quello era un caso in cui io non ero tenuto a obbedire al sovrano, dal momento che qualunque cosa ne pensassero gli altri (la cui coscienza e dottrina io non volevo condannare ne pretendevo di giudicare) per la mia coscienza la verità sembrava stare dall’altra parte. E la mia coscienza in materia io non me l’ero formata precipitosamente o alla leggera, ma attraverso un lungo arco di tempo e un minuzioso esame della questione.

L’offerta del perdono rientrava nella prassi giudiziaria dell’epoca e ad essa Moro rispose  «Signori vi ringrazio di cuore della vostra benevolenza. Tuttavia, prego Dio Onnipotente che voglia man- tenermi fermo in questa mia giusta opinione cosi che io possa perseverarvi fino alla morte. Quanto ai reati di cui mi fate carico, i capi d’imputazione sono cosi lunghi e prolissi che io temo che, anche a causa della lunga incarcerazione e della grave malattia e spossatezza di cui soffro attualmente, non avrò ne prontezza, ne memoria, ne voce atte a darvi delle risposte esaurienti ».

La vicenda del divorzio è stata la causa principale della condanna a morte dell’ex cancelliere dal momento che l’atto sulla supremazia ne costituisce la naturale e logica conclusione.

In effetti essa sorge in un momento nel quale Moro non riveste ancora la carica di cancelliere, come egli stesso scrive in una lettera del 1534 diretta a Cromwel. Il primo colloqui sul punto risale al settembre del 1527 al ritorno da un’ambasceria a Calais dove si era recato al seguito del Cardinale Wolsey, suo predecessore nella carica.

Apparentemente questo primo colloquio, al pari di altri che seguiranno, si conclude in una maniera che non lascia presagire il drammatico epilogo della vicenda: Enrico VIII aprì la Bibbia e lesse i passi che, a suo avviso, confortavano la sua tesi ottenendo questa risposta, stando alla lettera a Cranmer, Allora io, pur non essendo certo così presuntuoso da credere che Sua Altezza dovesse prendere il mio povero giudizio in una materia tanto grave a prova della fondatezza o meno di quella tesi, tuttavia, ritenendo mio dovere ubbidirgli, gli esposi il mio pensiero sui passi che mi aveva fatto leggere. Sua Altezza ascoltò benevolmente quella mia improvvisata e non approfondita risposta, e mi ordinò di consultarmi con messer Fox da poco nominato suo Elemosiniere, e di leggere con lui un libro che si stava allora scrivendo sull’argomento.

Quanto al merito della questione egli, due anni dopo, ebbe modo di precisare di non avere titolo per esprimersi sul punto dato che si trattava di un ordinario processo canonico.

Questa precisazione da parte di un esperto giurista, quale era Moro, chiarisce il perché il divorzio costituisca l’antecedente dell’atto di supremazia.

Visto il continuo tornare sul punto da parte del re Tommaso Moro, che nel frattempo era divenuto cancelliere, si tenne al difuori della questione non ritenendo di poter mutare avviso come testimonia quest’altro passaggio della lettera a Cromwel Da allora, io non ebbi più alcuna parte nella questione; nè mai ho scritto nè prima nè dopo una sola parola in argomento che fosse contraria alla tesi di Sua Grazia, ne ho mai istigato alcuno a farlo; ed anzi, disponendomi con tranquillità d’animo a servire Sua Grazia negli altri compiti da lui affidatimi, non ho più voluto neppure guardare o tenere scientemente davanti a me nessun libro della tesi contraria, non facendo invece nessuna difficoltà a leggerne vari altri che vennero scritti a favore della sua tesi.

Davanti alla Corte Tommaso Moro ritiene di doversi difendere unicamente sul punto del silenzio da lui tenuto dichiarando: E in primo luogo -quanto all’accusa che, interrogato da monsignore il Segretario del re e dall’onorevole Consiglio di Sua Maestà su quel che io pensassi di quello Statuto, non ho voluto rispondere se non che, essendo ormai morto al mondo, non pensavo piu a quelle cose ma soltanto alla Passione di Gesù Cristo – io vi dico che per quel mio silenzio il vostro Statuto non può condannarmi a morte: perché ne il vostro Statuto ne alcun’altra legge al mondo può condannare qualcuno se non per le sue parole o i suoi atti, e non per il suo silenzio.

Non essendogli stato mai contestato di avere cercato di fare proseliti o di avere mai incitato alcuno ad assumere posizioni contrarie a quelle del re appare chiaro che quello che si intendeva fare era negargli, in ragione della propria notorietà, il proprio diritto al dissenso che, però, non si era mai tradotto in azioni o in parole restando confinato nel chiuso della propria coscienza.

Lo dimostra la lettura del passo seguente nel quale si legge che E, conclusi, ormai ho decisamente allontanato dalla mia mente tutte quelle questioni e non ho alcuna intenzione di rimettermi a discutere sulle prerogative del re o su quelle del papa; e tuttavia sono e sarò sempre un suddito fedele del re, e ogni giorno prego per lui e per tutti i suoi, e per tutti voi che formate il suo nobile Consiglio, e per tutto il suo regno. E quanto al resto, non desidero piu in alcun modo occuparmene. Messer Segretario replicò che era convinto che il re non si sarebbe ritenuto pago e soddisfatto di una simile risposta, e che non avrebbe mancato di esigerne una piu precisa […].E quanto all’oggetto del loro interrogatorio, ripetei più o meno quel che avevo già detto: che avevo fatto proposito con me stesso di non dedicarmi ne mischiarmi più alle cose del mondo, e che d’ora in poi il mio unico pensiero sarebbe stato la Passione di Cristo e il mio passaggio da questa terra. Aggiungendo: io vi dico che, in materia di coscienza, il suddito leale è tenuto, più che a ogni altra cosa al mondo, alla propria coscienza e alla propria anima: sempre che la sua coscienza, come la mia, non sia promotrice di diffamazione o di sedizioni contro il suo principe: ed io vi assicuro che la mia coscienza io non l’ho rivelata a persona vivente.

Addirittura egli rivendica questo suo diritto inizialmente con la prediletta figlia Margareth scrivendole quei punti non li posso trattare senza svelare la mia coscienza.

 

7     Per giungere alla condanna si ricorse alla falsa testimonianza.

Nel momento di maggior debolezza per Tommaso Moro e cioè nel momento in cui egli viene privato dei libri, dopo gli era stata preclusa la possibilità di vedere i suoi, si fece in modo da far entrare nelle sua cella Richard Rich il quale cercò di farlo cadere in trappola fingendo di intrattenere con il prigioniero una conversazione sui poteri del re e sull’atto di supremazia. Il contenuto di questa conversazione venne riferito ai giudici in maniera distorta. Riferisce sul punto John Roper, genero dell’imputato per averne sposato la figlia Margareth ed autore della prima sua biografia: Allora, per provare ai giurati che sir Tommaso Moro era colpevole di tradimento, fu chiamato messer Rich perche ne rendesse testimonianza sotto giuramento. Egli lo fece; ma, a confutazione delle sue parole, sir Tommaso Moro dichiarò: «Signori, se io fossi un uomo che dà poco peso a un giuramento, voi lo sapete, non sarei costretto a trovarmi qui, ora, in questo processo, sul banco degli accusati. E se il vostro giuramento, messer Rich, risponde a verità, allora io prego Dio che mi sia negato in eterno di contemplare il Suo volto: ciò che altri- menti non direi, dovesse valermi la conquista del mondo ». Poi, riferii alla Corte tutta la conversazione avuta con Rich alla Torre, cosi come si era svolta realmente.

Questo è il resoconto fatto, appunto da Roper che aggiunge: Qualche tempo dopo. messer Rich (piu tardi lord Rich). che era stato da poco nominato Procuratore generale. sir Richard Southwell e un certo messer Palmer, uomo di fiducia del Segretario [Cromwell], furono mandati da sir Tommaso Moro alla Torre con l’incarico di togliergli i lihri.” E mentre sir Richard Southwell e messer Palmer erano occupati a radunarli. messer Rich. mostrando di voler conversare amichevolmente con sir Tommaso Moro. ma in realtà obbedendo a un suo piano ben preciso, in via di discorso gli disse: -Dato che voi, messer Moro, siete universalmente conosciuto per la vostra saggezza e la vostra cultura, profondissima sia nelle leggi del nostro paese che in ogni altro campo, permettetemi di essere cosI ardito da osare di sottoporvi questo quesito: supponendo che per un Atto del Parlamento tutta la nazione dovesse riconoscermi re, voi, messer Moro, non mi riconoscereste quale vostro sovrano? -SI, signore -rispose sir Tommaso Moro -vi riconoscerei senz’altro. -Allora -continuò messer Rich -vi proporrò un altro caso: che per un Atto del Parlamento tutta la nazione dovesse riconoscermi papa. In tal caso voi, messer Moro, non mi riconoscereste come papa? -In risposta aI- vostro primo quesito, signore, -precisò sir Tommaso Moro -vi dirò che il Parlamento è nel suo diritto a intromettersi nelle questioni che riguardano il potere politico dei principi; ma in risposta al vostro secondo quesito, a mia volta ve ne proporrò un altro. Supponete che il Parlamento stabilisca per legge che Dio non sia Dio. In tal caso, voi, messer Rich, dichiarereste che Dio non è Dio? -No, signore -fu la sua risposta -non lo farei, perché nessun Parlamento ha il potere di emanare una legge simile.-E neppure -replicò sir Tommaso Moro avrebbe il potere di costituire il re capo supremo della Chiesa.

Quest’ultima parte, stando a quanto risulta dalle fonti, venne aggiunta da Rich, che in seguito venne ricompensato con il titolo di lord, provocando la reazione dell’accusato della quale si è detto a fronte di quella che nella forma e nella sostanza era una vera e propria falsa testimonianza.

La deposizione resa da Rich non trovò conferma in quelle rese dagli altri presenti i quali, con varie sfumature, dichiararono di non avere prestato attenzione a quanto si erano detti i due..

Venne quindi chiamata la giuria che in breve tempo emise il verdetto.

 

8     A questo punto la procedura vigente all’epoca avrebbe voluto che si fosse data la parola all’accusato perché potesse portare elementi a sua discolpa. Il Lord Cancelliere, desideroso di chiudere tutto in fretta stava già pronunciando la sentenza quando fu interrotto da Tommaso Moro il quale dichiarò: Vedendo che (Dio sa in qual modo) avete deciso di condannarmi, desidero adempiere alla mia coscienza e dire chiaro e aperto il mio pensiero riguardo la mia incriminazione e il vostro Statuto. L ‘incriminazione è basata su un Atto del Parlamento che contrasta direttamente con le leggi di Dio e della sua Chiesa, in quanto la suprema giurisdizione della Chiesa o di una sua parte non può venire avocata a se, con nessuna legge, da nessun principe temporale, appartenendo di diritto alla Sede di Roma per quel primato spirituale trasmesso per singolare privilegio a san Pietro e ai suoi successori, i vescovi di quella Sede, dalla parola stessa di Cristo nostro Salvatore al tempo della Sua presenza su questa terra. Esso manca dunque di fondamento giuridico per far incriminare un cristiano da parte di altri cristiani. E a prova di ciò, fra altre argomentazioni e citazioni, spiegò che il regno d’lnghilterra, non essendo che una piccola parte e un singolo membro del corpo della Chiesa, non può promulgare una legge particolare in contrasto con la legge generale della Chiesa cattolica, l’uni- versale Chiesa di Cristo…… E ancora disse che tutto ciò era contrario alle leggi e agli Statuti del nostro paese -che mai erano stati abrogati -come si può chiaramente rilevare nella Magna Charta, là dove sta scritto: «Quod Ecclesia Anglicana libera sit et habeat omnia iura sua integra et libertates suas illaesas»; e che per di piu era in contrasto col sacro giuramento con cui il re, come ogni altro principe cristiano, si impegna solennemente all’atto dell’incoronazione. E aggiunse inoltre che il regno d’lnghilterra non potrebbe mai rifiutare obbedienza alla Sede di Roma, così come un figlio non può rifiutare obbedienza al proprio padre naturale.

Le fonti delle quali disponiamo (tra tutte il racconto del genero J. Roper e la Paris News Letter) concordano sul punto, salvo che su qualche dettaglio di poco conto, per cui possiamo ritenere attendibile la ricostruzione delle dichiarazioni di Tommaso Moro.

E’ evidente che questi ha abbandonato la linea del silenzio che aveva seguito sino a quel momento.

Ormai il suo destino è certo. La volontà divina gli è chiara e non v’è più ragione di persistere nell’atteggiamento tenuto sino a quel momento.

Con grande serenità egli si rivolse ai suoi giudici per l’ultima volta dicendo loro: No, signori, non ho più niente da aggiungere se non che come si legge negli Atti degli Apostoli -san Paolo era presente e consenziente alla morte di santo Stefano ed ebbe in custodia le vesti di coloro che lo lapidavano: eppure ora sono entrambi santi in Paradiso, e lassù saranno amici per sempre. Cos{, io fermamente confido – e con tutto il cuore lo chiederò nelle mie preghiere -che, benché voi, monsignori, siate qui in terra i giudici della mia condanna, possiamo un giorno ritrovarci tutti insieme nella gioia del Paradiso, per la nostra eterna salvezza. E allo stesso modo io prego Dio Onnipotente di proteggere e difendere la Maestà del re e di concedergli il suo buon consiglio. Sin sul patibolo egli ebbe parole di ossequio verso il sovrano

Allorchè il duca di Norfolk gli contestò che con tali parole egli dava la prova del suo dolo Moro rispose:-No, no è la pura e semplice necessità che mi impone di parlare cosi a lungo, per adempiere alla mia coscienza. E ne chiamo Dio a testimone, il cui sguardo, e solo il suo, sa penetrare nel profondo del cuore degli uomini. Del resto, non è tanto per questa Supremazia che voi esigete il mio sangue, quanto perché non ho voluto consentire al matrimonio del re.

Tommaso Moro intese riaffermare da un lato il primato del Papa e con esso l’unione con la Chiesa romana ponendo in risalto come anni di studio del problema lo avessero condotto alla conclusione che nulla autorizzava a ritenere che il re potesse invadere sfere non sue e dall’altro quali fosse la causa prima della sua condanna.

Tuttavia egli rimase sino all’ultimo fedele al suo re e ritenne che nulla autorizzasse il venir meno all’obbligo di fedeltà cui era tenuto ogni suddito ed evitò sempre di fare o dire qualsiasi cosa che potesse suonare incitamento, diretto od indiretto, a violare tale obbligo.

 

9     Rispose ai suoi inquisitori gli chiedevano perché, visto che mi era indifferente continuare a vivere, come avevo affermato, non dichiarassi apertamente che lo Statuto era illegale. In ciò era implicito che, nonostante le mie dichiarazioni, io avevo paura della morte. Quindi risposi, secondo verità, che non ero un uomo di cosi santa vita da potermi offrire arditamente alla morte, senza temere che Dio, per punire la mia presunzione, potesse permettere ch ‘ io mi arrendessi. Ed era per questo che non avanzavo, ma indietreggiavo. Ma che se fosse Dio stesso a chiamarmi, mi sarei affidato alla Sua grande misericordia per ottenere la grazia e la forza necessarie. (lettera del 3 giugno 1535 alla figlia Margareth

Non è possibile comprendere il comportamento di Tommaso Moro nella vicenda che lo condusse sul patibolo se non leggendo il libro che egli scrisse allorché era già detenuto nella Torre e che rimase incompiuto allorché gli furono tolti i libri e i mezzi di scrittura: Nell’orto degli Ulivi il cui sottotitolo è Expositio passionis domini.

In tale opera egli ripercorre la passione del Cristo e dice quale debba essere l’atteggiamento del cristiano dinanzi alle persecuzioni ed alla morte.

Ma qui forse qualcuno potrebbe obiettare che ci si stupisce non tanto che Egli abbia potuto provare quei sentimenti, quanto che l’abbia voluto. Proprio Lui, che aveva insegnato ai discepoli a non temere coloro che possono uccidere il corpo , ma oltre a ciò non hanno alcun potere, proprio Lui ora se ne mostrava atterrito, benché sapesse che nessun potere i suoi nemici avrebbero avuto sul suo corpo se non fosse stato Lui stesso a permetterlo? …. Proprio Lui, che in tutte le altre cose, prima che con le parole aveva insegnato con l’esempio, non avrebbe dovuto farsi modello agli altri soprattutto in questo frangente, perché imparassero da Lui a subire intrepidamente la morte in nome della verità ? Con quella sua debolezza dava invece un pretesto a quanti avessero esitato e vacillato da- vanti alla morte per la fede, autorizzandoli a sentirsi giustificati dall’esempio del loro stesso Maestro….Egli non chiedeva loro di non averne affatto, ma di non averne in misura tale da fuggire la morte che dura un solo istante per precipitare, rinnegando la fede, nella morte eterna. …..Così il nostro Salvatore Cristo, anche se ci comanda -quando sia ciò inevitabile -di essere pronti a morire piuttosto che separarci da Lui per paura della morte (e ci separiamo da Lui se ne rinneghiamo pubblicamente la fede), tuttavia è tanto lontano dal comandarci di far violenza alla natura e di non temere affatto la morte, che, quando ciò sia possibile senza tradire la – fede, ci dà facoltà di fuggire il supplizio: Quando vi perseguiteranno in una città -dice -fuggite in un’altra. In virtù di questo indulgente consiglio di ragionevole prudenza del nostro Maestro, quasi nessuno degli Apostoli, quasi nessuno dei più illustri martiri nel corso dei secoli, non preferì in qualche caso salvarsi la vita preservandola, con grande vantaggio spirituale proprio e di altri, fino a quando non venne il momento che Dio, nella sua arcana provvidenza, ritenne opportuno.

L’ulteriore passaggio del pensiero di Tommaso Moro, quello che lascia comprendere le ragioni che lo determinarono ad esplicitare il suo pensiero e ad abbandonare la linea di condotta tenuta sino a quel momento è costituito dal richiamo di alcuni brani di Paolo di Tarso. Eppure, proprio Paolo, questo fortissimo atleta che la speranza e l’amore di Cristo avevano portato alla certezza del premio celeste, tanto da dire « Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa […] .Ed ora mi attende la corona della gloria »; e che desiderava così intensamente quella corona da dire: « Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno » e « Non desidero che di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo » proprio quello stesso Paolo si destreggiò, ricorrendo prima al tribuno romano e appellandosi poi all’imperatore, per sfuggire una prima e una seconda volta alle insidie dei giudei; mise in campo la propria cittadinanza romana per liberarsi dal carcere; si fece calare lungo le mura entro una cesta per sottrarsi alle mani sacrileghe del re Areta……Che il suo fortissimo animo non sia stato immune dalla paura lo dice Paolo stesso scrivendo ai Corinzi: « Da quando sono giunto in Macedonia, non ho conosciuto tregua, ma ho patito sofferenze di ogni genere: battaglie all’esterno, timori al di dentro ». E in un’altra lettera: « Sono venuto in mezzo a voi con la mia fragilità e con molto timore e trèpidazione ». E ancora: « Non voglio che voi, fratelli, ignoriate le immense difficoltà che ho incontrate in Asia, dove sono stato provato al di sopra delle mie forze, tanto che non desideravo più vivere »

La conclusione del pensiero di Moro e, dunque, la spiegazione conclusiva la si rinviene nel passo, sempre dell’Expositio passionis domini nel quale dice lasciò che si rialzassero (gli armati venuti a catturarlo) perché potessero compiere ciò che Egli permetteva che fosse compiuto.

Ormai Tommaso Moro è certo di conoscere la  volontà divina e l’accetta.

Ormai egli è certo che è stato Dio stesso a chiamarlo e si affida alla sua misericordia per ottenere la forza e la grazia necessarie come ebbe a scrivere il 3 giugno alla figlia esprimendo Il senso dell’abbandono alla volontà divina: sarei addolorato se la mia attesa dovesse protrarsi oltre domani, che è la vigilia di San Tommaso e l’Ottava di San Pietro, perché io desidero ardentemente andare a Dio in un giorno così propizio e adatto per me.

La data alla quale Moro fa riferimento è quella dell’anniversario della traslazione della spoglie di Tommaso Becket l’arcivescovo fatto assassinare da un altro re di nome Enrico del quale era stato ministro.

Al termine del processo che aveva affrontato chiedendo Dammi la grazia,  Signore di non dare più ascolto alle voci del mondo egli si congedò dai suoi giudici augurando loro di trovarsi tutti insieme a far festa in Paradiso. 

 

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