Viaggio alla scoperta dei culti ancestrali greci con Fernanda Facciolli,

 a cura di Francesca Bianchi
Varcando la soglia del Dictynneion, sembra di essere immersi in uno spazio sacro, in cui prendono corpo le forze primordiali della natura, venerate nel mondo preclassico del Mediterraneo. Con la cortesia e l’ospitalità che la contraddistinguono, la pittrice e docente veneziana Fernanda Facciolli e suo marito Emmet ci hanno aperto le porte di questo spazio espositivo, sito in Campiello del Sole, a Rialto, permeato dalla presenza di antiche spiritualità femminili, a cui è stata dedicata una lunga ed appassionata ricerca artistica che ha riguardato in particolare i temi cardine: l’amore, i miti greci e il culto preistorico della Grande Madre mediterranea.
Donna di straordinaria cultura ed eleganza, nel corso della nostra entusiasmante chiacchierata la pittrice ha ripercorso le tappe più importanti della sua vita e della sua carriera. Con orgoglio ci ha anche raccontato la genesi del suo libro “Con Pausania sulle tracce di Esiodo”, frutto delle scoperte fatte nei suoi numerosi viaggi in Grecia in compagnia del marito, sotto la guida fedele del geografo greco Pausania (II sec. d.C.).
Dopo anni di viaggi culturali in Italia, in Grecia, a Malta e in Nord Africa, l’artista e suo marito Emmet hanno iniziato ad effettuare viaggi di studio nel Mediterraneo alla scoperta di testimonianze poco note e poco esaminate, come i santuari preistorico-arcaici in grotta nei fianchi dell’Acropoli di Atene o i resti delle antiche città minoiche e micenee.
Ne è scaturita una ricostruzione delle religioni praticate in Grecia in tempi preistorici e protostorici. Associando le indagini sul territorio all’esame delle testimonianze dei miti greci scritte in età classica, soprattutto dal geografo Pausania il Periegeta, e analizzando il significato in antica lingua greca dei nomi, la pittrice ha ricostruito, sulla base di indizi e ragionamenti logici, quelli che dovevano essere gli esordi dei culti locali della Grecia, di cui non abbiamo, purtroppo, prove scritte.

 

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            Copertina del libro-catalogo della mostra “Con Pausania sulle tracce di Esiodo”.

All’epoca del passaggio dal periodo arcaico, permeato da una visione religiosa matriarcale, al periodo classico, caratterizzato da una visione religiosa patriarcale, tutte le dee madri delle popolazioni marginali delle campagne e dei monti sono state abbassate al rango di ninfe oppure mascolinizzate, a volte persino demonizzate, come Medea, letteralmente Dea Madre, che viene trasformata in una strega malvagia che uccide i suoi stessi figli; Medusa, che da Dea Luna diventa una ninfa orrenda che pietrifica chiunque la guardi; Arianna, la Signora delle Altezze, anticamente dea del cielo e madre della pioggia fecondatrice, che viene trasformata in una principessa cretese traditrice della sua patria e per questo giustamente sedotta e abbandonata da Teseo a Nasso; o Circe, che da divinità lunare patrona degli animali viene abbassata al rango di maga ammaliatrice che trasforma gli uomini in animali. Mossa da una grande desiderio di conoscenza e da un’inesauribile energia, la pittrice è fortemente persuasa che con l’eterno e universale linguaggio dell’arte possa rendere partecipi delle sue scoperte gli ammiratori dei suoi dipinti, trasmettendo loro la stessa gioia di vivere che da sempre anima la
sua creatività.

Signora Facciolli, quando è entrata l’arte nella Sua vita?
Essendo figlia d’arte, ho avuto la fortuna di crescere in un ambiente in cui si coltivava grande passione per l’espressione artistica. Mio padre era un famoso ritrattista paesaggista e ogni domenica mi portava a visitare gallerie d’arte. All’età di due anni realizzai la mia prima figura umana, gelosamente conservata da mia madre. Da allora ho fatto del disegno quasi l’unico mio gioco di bambina. Terminati gli studi artistici, sono approdata al mondo della grafica, per poi gettarmi definitivamente nella pittura, fino a sviluppare in questi ultimi anni idee e contenuti legati alla dimensione preistorica della dea Madre. All’età di 25 anni ho vinto un concorso per una cattedra di pittura, affiancando così all’avventura artistica, fatta di mostre collettive e personali, quella della didattica, che mi ha consentito di trasmettere ai miei allievi il bello e il buono, arricchiti con l’esperienza della professione artistica.

Il Suo sogno di bambina era quello di fare la pittrice?
No, da bambina sognavo di fare la maestra, perché per me la maestra era la più grande figura di potere. A 14 anni, invece, avrei voluto fare la pittrice, con la speranza di realizzare così un sogno di mio padre. Il destino ha voluto che nella mia vita sia riuscita a fare sia la pittrice che l’insegnante.

Cosa significa per una pittrice insegnare l’arte?
Per me insegnare significa passare a qualcuno che ne farà buon uso il meglio che ho raccolto dalle mie esperienze. Devo dire che più faccio esperienze, più nasce in me un immenso desiderio di  raccontarle. Credo che compito primario di ogni artista sia quello di scorgere il bello e, una volta trovato, farlo vedere agli altri. Chi ha avuto modo di vedere i miei lavori, ne ha ricevuto, credo, un’intensa elevazione spirituale: per me questa è la gratificazione più importante.

Quanto incide l’aspetto spirituale e trascendentale nella Sua ricerca pittorica?
Avendo cantato in gioventù come soprano nel Coro Polifonico Veneziano, ho cercato di trasporre la polifonia dei canti nella mia pittura, maturando fin dall’inizio un linguaggio segnico e compositivo, in cui le vibrazioni sensoriali ed emotive si scompongono e si ricompongono, armonizzandosi in un movimento fluido e polifonico. Poi, constatato che nell’arte vengono rappresentate o scene di sesso o di violenza, ho deciso di rappresentare il bello, l’amore, la serenità. Per me non c’è niente di più bello dell’amore, motore immobile e sostegno dell’umanità. Nei miei quadri spesso racconto l’amore attraverso il simbolismo di un bacio o di un abbraccio.

I sentimenti che scaturiscono dai Suoi quadri sono stati una costante della Sua vita…
Sì, soprattutto l’immenso amore tra me e mia figlia Galadriel, venuta a mancare all’età di 10 anni. Quando è nata, ho provato la gioia più grande della mia vita. I dieci anni vissuti con lei, seppur brevi, sono stati gli anni più intensi e più belli. Il destino mi ha messo a dura prova, ma sono stata tanto amata. L’amore, mia figlia e l’arte sono stati i regali più preziosi che la vita potesse farmi.

Quali sono stati i Suoi maestri?
I miei primi maestri sono stati mio padre e mia madre. Poi Michelangelo, di cui fin da giovane ho apprezzato il modo in cui riusciva ad avvitare su se stesse le figure. Ho sempre cercato di mettere nei miei disegni la torsione dei corpi e il dinamismo michelangiolesco. Del resto l’amore, tema costante della mia pittura, è una cosa dinamica.

Come è nata l’idea di trasporre il mito greco nei Suoi dipinti?
I miti greci sono sempre stati la mia grande passione. Il mito racconta degli inizi dell’avventura umana; per comprenderlo interamente occorre risalire i tempi della storia fin oltre la storia, ben prima dei testi scritti, e imparare nuovamente a leggere e ad ascoltare la Natura, novello Oracolo assolutamente attendibile. Percorrendo la Grecia, le primigenie voci della Natura sono ovunque, sottolineate da una religiosità millenaria che ha conservato, con i segni della fede, i luoghi degli antichi santuari delle Dee Madri.

Come è nata l’idea di dare alle stampe il libro “Con Pausania sulle tracce di Esiodo”?
Con mio marito Emmet abbiamo trascorso tre mesi e mezzo a Tebe, guidati come sempre daPausania, alla ricerca di testimonianze archeologiche e naturalistiche. Abbiamo realizzato dei quadri, ispirati alle nostre scoperte, facendo così rivivere i miti della città di Tebe. Ci siamo resi conto che una mostra normale non era sufficiente per contenere almeno una parte dei miti più importanti. Così abbiamo allestito una mostra a Venezia in quattro sedi diverse. A causa della mole delle storie citate, nessuno si sentiva in grado di scrivere il testo per un catalogo della mostra. Allora, terminata la realizzazione dei quadri, ho deciso di scrivere personalmente un libro corredato di trentasei opere pittoriche, con annesse fotografie dei siti archeologici, un saggio a metà strada tra il catalogo d’arte e la trattazione scientifica e filologica. In esso svelo l’originaria essenza dei miti e delle religioni dell’età del Bronzo in Beozia, ripercorrendo i luoghi degli antichi santuari. Studiando l’etimologia dei nomi e associandola ad osservazioni in loco, dimostro che re,
principesse ed eroi mitologici erano in realtà elementi della natura: fiumi, fonti, montagne ed alberi pluricentenari. Dopo il Medioevo Ellenico, i Greci non capivano più che si trattava di elementi naturali, ma li interpretavano come esseri umani.

Nel catalogo c’è un dipinto a cui è particolarmente legata?
Sì, il quadro a cui tengo di più è quello intitolato “La Sfinge di Tebe”. Ai tempi di Pausania era sopravvissuto il ricordo di una dea dal corpo mostruoso, la Sfinge appunto, nemica degli stranieri, che difendeva i confini di Tebe. In realtà, però, la Sfinge era una montagna a forma di leonessa alata in procinto di spiccare il volo. Esiodo, che scriveva in dialetto beotico, nella sua Teogonia chiama la Sfinge Φίξ, genitivo Fikòs. Figòs significa “quercia”, figoon “querceto”. Ne ho dedotto che il monte della Sfinge, lo Sfinghion, il monte beota di Tebe, era il monte del querceto, ricoperto di splendide querce, alberi simbolo della forza che viene donata dal cielo attraverso le acque.

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“La Sfinge di Tebe”, acrilico su tela, cm. 150×100, 2013.

Probabilmente, in epoca preistorica, lì sorgeva un santuario dedicato alla Signora del Querceto o della Montagna, una dea del cielo e della fertilità che veniva rappresentata come un animale ibrido con testa umana, corpo di leonessa e ali d’aquila. Visitando gli scavi archeologici del santuario dei  Cabiri, di cui parla Pausania, abbiamo potuto ammirare una montagna enorme, modellata dalla natura in forma di leonessa alata che sta per emergere dalla pianura, allargando le possenti ali. Nel mio dipinto ho umanizzato la montagna, che ho voluto effigiare come la dea egizia Sekmet, con corpo di donna e testa di leonessa, a cui ho aggiunto ali d’uccello. Così la Sfinge per me era la
montagna che dall’alto guardava la città di Tebe e la proteggeva con il suo corpo imponente. Nel dipinto, in basso a destra, ho inserito anche il geroglifico egizio che simboleggia la città: un cerchio tagliato in due da una croce centrale.

Come mai nei Suoi quadri spesso compaiono animali, quali l’asina e la scrofa, associati a divinità?
Perché penso fermamente che bisogni restituire la dovuta dignità ad alcuni animali che oggi sono profondamente disprezzati, ma che nell’antichità erano considerati sacri. Nelle società antiche l’asino era un animale preziosissimo e quasi l’unico mezzo di trasporto dei poveri. A Tebe esisteva un santuario dedicato ad Atena Onka, come attesta Pausania. Nell’antico linguaggio beotico, Onka doveva significare “Asina”, poiché il verbo greco “onkaomai” significava “ragliare”, e forse gli antichi adoratori di Atena Asina la vedevano come dea lunare madre e dispensatrice delle acque del cielo e delle fonti. Del resto l’asina donava un latte molto simile al latte umano, adatto quindi a sostituire nella nutrizione dei neonati il latte materno, quando questo non era disponibile. Invocare una dea Asina era come invocare una madre amorevole e una efficiente nutrice e salvatrice di bambini.
Nel dipinto “Atena Onca bacia la fonte” ho voluto accentuare con il bacio la dolcezza di questo animale. Con i suoi colori bianco e blu richiamo la Signora del Cielo e della pioggia e il suo riflesso nelle acque della ninfa sua figlia.

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“Atena Onka bacia la fonte”, acrilico su tela, cm. 20×20, 2013.

Altro animale da riabilitare è la scrofa, che con le sue 14-18 mammelle doveva essere considerata la madre delle madri, simbolo per eccellenza di ricchezza ed abbondanza della Madre Terra che nutre i suoi figli. Memore di Pausania che ci parla di un bosco sacro di Demetra e di Core presso le rovine di Potnie, dove in un determinato periodo dell’anno gli antichi abitanti celebravano tutti i loro riti tradizionali, facendo entrare dei maiali appena nati nelle fosse sacre, dette “megari”, ho realizzato il quadro “Demetra Potniade e la scrofa sacra”.

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“Demetra Potniade e la Scrofa Sacra”, grafopittura a olio e acrilico su tela, cm. 50×20, 2013.

La nostra mentalità moderna stupisce di fronte all’abbinamento dea-scrofa, poiché per la nostra cultura questo animale è simbolo di gola smodata, comportamento incivile, scarsa igiene. Gli antichi forse adoravano la dea madre anche in forma di scrofa e probabilmente vedevano le montagne con le loro cime appuntite come il corpo enorme di una dea suina dispensatrice di acqua da bere, che esce dai suoi capezzoli. Il termine per indicare la madre dei maialini deriva da due parole greche molto antiche: ma, “madre”, e rie, che significa “scorre”, ossia “la madre di ciò che scorre”, con riferimento all’animale che allatta e alla montagna sacra che fa scorrere i torrenti dalle sue fonti. Ad un certo punto la dea Montagna è stata identificata con la dea Terra e Marie si è fusa con Demetra. Il rispetto e la gratitudine per questo generoso animale non è mai venuto meno e ancora ai tempi di Pausania si offrivano in dono a Demetra dei maialini. Io ho dipinto la dea Demetra in forma umana e la sua controfigura Marie in forma animale, mentre dona acqua ai suoi devoti.

La presenza di divinità femminili e una profonda e sincera venerazione per l’antica Dea Madre mediterranea dei tempi preistorici sono temi costanti della Sua arte. Quando e come ha deciso di fare propri questi temi?
Ho trovato grande ispirazione nei testi di Robert Graves e di Marija Gimbutas, dove si dice chiaramente che le varie divinità femminili facevano capo o alla Dea Luna, creatrice e dominatrice delle acque, o alla Madre Terra, dispensatrice di vita per tutti gli esseri viventi. A Volos, in Tessaglia, ho avuto modo di ammirare le statuine votive della Dea Madre, risalenti al 6000 a.C. Nei tempi più antichi della colonizzazione umana del territorio greco, i primi abitanti cercavano l’acqua dolce, prima di stanziarsi in un determinato luogo. Quando la trovavano, erano profondamente grati verso la roccia che donava la fonte o alla Madre Terra che faceva scaturire  l’acqua dal suolo. In cambio di questo prezioso dono, gli antichi Greci onoravano la fonte, il fiume o la montagna con offerte di primizie o fiori. La montagna era considerata il seno della Dea Madre Terra e il fiume o la fonte era la Dea Figlia. Pure gli alberi selvatici o coltivati erano Figlie della Montagna, che a loro volta divenivano le madri dei frutti che nutrivano i nostri antenati. Anche il Cielo veniva riconosciuto come donatore dell’acqua, poiché la terra e la montagna, per donarla agli uomini, dovevano prima raccogliere la pioggia dal cielo. Per questo motivo la volta celeste era per i Greci l’Alta Signora Madre delle acque e la Luna era la sua testa e il suo volto. E’ sorprendente notare la continuità tra i culti preistorici e quelli cristiani: girando per i paesini della Beozia, nella ricerca dell’ubicazione esatta degli antichi santuari, siamo stati aiutati molto dalla presenza di chiesette ed edicole votive cristiane, che ci segnalavano la presenza dei luoghi sacri antichi e moderni. La sacralità di un luogo derivava dalla presenza di una fonte o di un torrente antichi: allora si ringraziava la Ninfa della fonte o qualche divinità delle acque, oggi si ringrazia la Madonna o qualche santo cristiano, specialmente di sesso femminile, come Santa Paraskevì, ossia Santa Venerdì che, come la dea Venere, favorisce i concepimenti.

Un Suo quadro è intitolato “Demetra Tesmofora e le tavolette micenee”; chi era questa divinità?
Demetra, letteralmente “Madre-Terra”, da Ge-meter, era una delle dodici divinità olimpiche capeggiate da Zeus ed era la sorella maggiore di quest’ultimo. Era la dea della terra, colei che faceva maturare i frutti dei campi, la dea dell’agricoltura. Il suo epiteto di “Tesmofora”, ossia Legislatrice, alludeva alle leggi della natura e della terra fertile, leggi legate alle stagioni e alle operazioni di aratura, semina, irrigazione, mietitura che dovevano essere compiute in determinati periodi, secondo un calendario ricorrente, stabilito dalla dea stessa. Pausania ci parla dell’esistenza, a Tebe, di un santuario di Demetra Tesmofora, “che un tempo fu casa di Cadmo”, e ci informa della presenza di una “statua di Demetra scoperta fino al petto”. I Tebani che si accingevano a costruirlo dovevano aver notato delle tavolette iscritte affiorare dalle macerie del palazzo cadmeo e, non essendo più in grado di interpretarne la scrittura, dovevano aver supposto che riportassero il testo di antiche leggi. Da qui la decisione di intitolare il nuovo tempio non semplicemente a Demetra, ma a Demetra Legislatrice. Nel mio quadro ho cercato di dare una nuova interpretazione alla statua classica di Demetra vista da Pausania. Il fatto che fosse “scoperta fino al petto” potrebbe farci pensare a una statua intera di una donna vestita solo dalla cintola in giù, come le figure delle varie “Dee dei serpenti” minoiche, riproponendo in forme classiche un modo miceneo di rappresentare la dea della terra, generosa nutrice. Oppure potrebbe essere stata una scultura di una donna scolpita solo dalla cintura in su, dando l’impressione di emergere dalla terra, in modo simile alla figura di  Gea nell’altare ellenistico di Pergamo. Ho deciso allora di disegnarla dalla cintola in su, evidenziando uno dei suoi seni, che hanno sempre simboleggiato la sua funzione di madre e nutrice. Ho aggiunto la mano e l’avambraccio, che nelle mie pitture rappresentano la chioma e il tronco degli alberi, figli della terra e parte di essa. Si vedono poi tre caratteri di scrittura discendere dalla chioma dell’albero: sono tre segni della scrittura sillabica micenea, detta “lineare B”, realmente contenuti nelle tavolette di Tebe, e simboleggiano le tavolette stesse che si trovavano sotto al tempio di Demetra Tesmofora, come se la dea delle stagioni donasse le sue sacre leggi della natura agli uomini.

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“Demetra Tesmofora e le tavolette micenee”, acrilico su tela, cm. 100×100, 2014.

Ha dedicato una grafopittura alla festa delle querce sacre di Platea in età matriarcale, che secondo Lei è all’origine delle attuali danze popolari in cerchio greche ed europee. Come è arrivata a questa conclusione?

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“La festa dei Dedali di Platea in età preistorica”, grafopittura a olio e acrilico su tela, cm. 80×30, 2013.

Il quadro in questione si chiama “La festa dei Dedali di Platea in età preistorica”. Le Daìdala dovevano essere in origine le feste dei pini. Il mitologico Dedalo era, secondo me, il simbolo dell’albero di pino e, come tutti gli alberi, in età matriarcale era sacro, era un Eroe. Robert Graves era convinto che la parola greca “eroe” (hroos) derivasse da Era (Hra) e significasse “figlio di Era”. Se Era significa “quella che sta su”, cioè dea del cielo, gli eroi erano esseri viventi di specie  non umana, ma vegetale e minerale, che erano considerati dono della dea del cielo che li generava e li nutriva con le sue piogge. Il bosco delle querce sacre di Alalcomene era un tempio a cielo aperto,
in cui si raccoglieva solo ciò che la dea donava spontaneamente. Probabilmente una volta all’anno, quando gli alberi a primavera fiorivano, o in estate, quando davano frutti, si faceva una grande festa in onore degli Eroi alberi. A Platea si onoravano i dedali, cioè i pini locali, ad Alalcomene le querce, come a Dodona, dove erano sacre a Dione, moglie di Zeus. In questa occasione gli alberi venivano ringraziati, appendendo ai rami nastri colorati, collanine, ghirlande di fiori. A gennaio, invece, quando gli alberi erano privi di frutti e di foglie, i nostri antenati li rallegravano, appendendo ai loro rami oggetti colorati simili a pomi e gomitoli di lana rossa. Nella mia grafopittura rappresento una festa dei Dedali di primavera ad Alalcomene, in cui i Plateesi e gli Alalcomenii ringraziano la quercia più vecchia del bosco e le sue figlie, danzando intorno ai loro tronchi in cerchi aperti, e cantando inni di lode alla dea Ninfeuomene, la dea della Luna Piena, che rende fertili le querce e tutte le creature.

Ha qualche sogno nel cassetto?
Mi piacerebbe che la mia città desse più importanza ai pittori veneziani. Inoltre vorrei che la città di Padova mi permettesse di allestire una mostra dedicata a Reitia, dea degli antichi Veneti. Credo che ogni città debba cercare un’arte contemporanea che faccia uso prezioso dell’antichità e della storia locale: con un’espressività moderna è possibile rappresentare e tramandare la grandiosità dei nostri antenati. Sono sicura che se recuperassimo l’orgoglio locale, le persone sarebbero più serene e consapevoli. Infine mi auguro di riuscire a vivere almeno fino a 80 anni per diffondere nuove ed interessanti storie e tradizioni che sono certa di scoprire nei miei prossimi viaggi in Grecia.

Intervista di Francesca Bianchi – francesca-bianchi2011@hotmail.com

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