JAYNE MANSFIELD, LA BOMBA SEXY DAL CERVELLO DI UN GENIO
di Daniela Musini
La sua circonferenza toracica misurava 107 cm (12 cm più di quella di Sophia Loren), il suo quoziente intellettivo era di 162 punti (uno più di Einstein), parlava 5 lingue, suonava (benissimo) violino e pianoforte, fu madre (affettuosissima)di 5 figli, ebbe uno stuolo di amanti e fece una fine orribile.
Tutto questo fu Jayne Mansfield, la prorompente e polposa attrice di origine anglo-tedesca che i produttori di Hollywood lanciarono come rivale di Marlyn Monroe, della quale non prenderà mai il posto, ma della quale condivise la rigogliosa fisicità e il destino tragico. Vera Jayne Palmer (questo il vero nome) nacque il 19 Aprile 1933 in una piccola cittadina della Pennsylvania, negli States, e la sua infanzia fu segnata dalla morte improvvisa del padre quando aveva appena tre anni e dalla precocità della sua intelligenza che le fece apprendere con facilità lo studio del violino, tanto che a sette anni si esibiva come piccola artista di strada.
Fu precoce in tutto: nelle velleità, nel desiderio spasmodico di piacere,
nell’ambizione sfrenata di raggiungere la fama ad ogni costo e nella voglia di
metter su famiglia. A 17 anni sposò Paul
Mansfield (di cui conserverà il cognome per sempre) dal quale ebbe una
figlia (gli altri quattro li avrà dai successivi mariti), si trasferì ad Austin e si iscrisse contemporaneamente
all’Università del Texas a studiare Fisica e al Dallas Institute of the
Performing Arts dove seguì le lezioni di recitazione di Baruch Lumet, il padre del futuro regista Sidney.
Non fu mai un’attrice eccelsa, diciamocelo, ma la sua interpretazione a Teatro
in “Morte di un commesso viaggiatore”
di Arthur Miller piacque e nel 1956
vinse addirittura il Theatre World Award. Ma lei ambiva alla carriera
cinematografica e a diventare famosa, a qualunque costo.
A 15 anni aveva chiamato il centralino della Paramount e alla centralinista che
le chiedeva cosa desiderasse, aveva candidamente risposto: «Diventare una star».
Lo diventerà, sfruttando la sua giunonica carnalità e il suo sfrontato
opportunismo.
Eccola allora sul podio dei più famosi concorsi di bellezza del tempo, eccola
rifulgere sulle pagine di Playboy (che vendette per l’occasione milioni di
copie), eccola, nel corso della sua (breve) vita diventare di volta in volta
amante di produttori, magnati e personaggi celebri: da John e Bob Kennedy (eh già, anche lei come
Marilyn) a John Wayne, da Tony Curtis a Dean Martin, da Robert
Wagner a Burt Reynolds.
Ed eccola finalmente firmare il contratto con la 20th Century Fox e partecipare
a pellicole accanto a Joan Collins e
Cary Grant; nel 1958 avrebbe dovuto
girare un film da protagonista insieme a James
Stewart, il delizioso “Una strega in
Paradiso”, ma era incinta e la parte andò a Kim Novak.
Già, perché nel frattempo si era legata a Mickey Hargitay, un culturista ungherese, già Mister Universo 1955, con il quale prese parte a film non memorabili, concepì 3 figli e si esibì in spettacoli erotici in nightclub e locali di dubbia moralità.
La sua smania di celebrità a qualunque costo la convinse ad accettare di
apparire completamente nuda nel film “Promises!
Promises!” che ebbe un grande successo commerciale e le fece guadagnare
centinaia di copertine di giornali. La sua attitudine agli “incidenti” osé in
cui, guarda caso, la spallina dell’abito scendeva improvvisamente e il seno
appariva nella sua sontuosa prorompenza, o la gonna si alzava per colpa del
vento rivelando la mancanza di biancheria intima, le procurarono una pubblicità
eccezionale sì, ma anche critiche feroci, tanto che il suo stilista Richard Blackwell, disegnatore di moda
anche di Jane Russell e di Nancy Reagan, si rifiutò ad un certo
punto di affidarle le sue creazioni e la espunse dalla lista delle sue clienti
famose. Ma lei se ne infischiava allegramente.
A cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta fu la Diva più paparazzata dopo Marilyn e Liz e a lei questo importava: il successo, gli autografi, il traffico impazzito quando lei ancheggiava per strada con una tigre dipinta di azzurro al guinzaglio, la bramosia degli uomini, le copertine dei giornali. Tutto questo costituiva la sua droga. Quella vera sarebbe arrivata più tardi. Insieme al marito culturista aveva acquistato una villa da 40 stanze a Beverly Hills, ribattezzata “Pink Palace” dove tutto era stucchevolmente rosa, con vasca da bagno e piscina a forma di cuore e piccoli cupidi che scagliavano frecce fluorescenti color rosa. Qui accoglieva i fotografi indossando vestaglie trasparenti di chiffon (con la biancheria intima ridotta al minimo) e sdraiata su pelli di leopardo.
Lei, intelligente al limite della genialità, che leggeva (di nascosto per non
intaccare la sua fama di oca giuliva che le aveva appioppato lo star-system) Shakespeare e Dostoevskji, rispondeva alle domande dei giornalisti cinguettando
frasi tipo «mi lavo esclusivamente con champagne rosé e mi asciugo indossando
pellicce di visone selvaggio».
Anche la nostra Oriana Fallaci andò
a trovarla e sulle pagine dell’Europeo scrisse un articolo memorabile
definendola «la ragazza più simpatica, più sincera e più incompresa d’America»,
non cadendo nel tranello dell’immagine della svampita tutta curve. Ma tutto ha
un prezzo. Divorzia da Nargitay e sposa Matt
Climber dal quale ha il suo quinto figlio, ma il matrimonio naufraga
presto. Si unisce all’avvocato che le cura il divorzio, Sam Brody, che per lei aveva lasciato moglie (malata) e due figli,
ma questi era un debosciato nullafacente che la inizia alle droghe (LSD
soprattutto), sperpera al gioco i guadagni di lei e compra Rolls-Royce con
assegni a vuoto.
Di più: la inizia al satanismo e insieme diventano seguaci di un guru della
setta di Charles Manson (quello, per
intenderci, che nel 1968 truciderà l’attrice Sharon Tate, moglie di Roman
Polanski).
Per Jane è una deriva senza scampo, che culmina con l’arresto nell’ospedale
dove si era recata a visitare uno dei suoi figli colà ricoverato: strafatta
com’era, aveva cominciato a spogliarsi in corsia.
La sua carriera cinematografica declina impietosamente: a Hollywood le chiudono
le porte in faccia e finisce in Italia a girare film con Franco e Ciccio.
Non solo: si riduce a fare serate in strip-club in cui si esibisce in abiti
succinti come cantante e “barzellettiera” di storielle piccanti per la gioia di
un pubblico rumoroso e sguaiato, portandosi appresso sempre i figli che lascia
a dormire in camerino, perché il senso materno ce l’aveva.
Sì, ce l’aveva, e non era finzione. Almeno quello. Una volta che l’avevano chiamata
ad inaugurare una catena di macellerie, oltre al cachet, s’era portata a casa
500 dollari di hamburger per i suoi bambini. «Ne vanno matti», aveva aggiunto
con la sua radiosità disarmante.
Tre dei suoi bambini, Milós, Zoltán e Mariska, erano
in quella maledetta Buick Electra blu che il 28 Giugno 1967, alle 2,25 di
notte, percorreva a forte velocità la Highway 90 diretta a New Orleans.
Avevano ripreso il viaggio dopo essersi fermati a mangiare un boccone ad un
ristorante sulla strada e lì, ad una donna che l’aveva approcciata timidamente
chiedendole se fosse davvero Jane
Mansfield, aveva risposto sfoderando uno dei suoi leggendari sorrisi: «the
one and only» (la sola e l’unica), ma poi aveva pianto in bagno, col trucco che
le colava sulle guance.
Dopodiché aveva sistemato amorevolmente sul sedile posteriore i suoi piccoli,
che si sarebbero addormentati subito dopo, e si era accomodata sul sedile
anteriore con in braccio i suoi amati chihuahua Momsicle e Popsicle, accanto a
Sam il suo amante e a Ronnie, il ventenne che lei aveva abbordato in un locale
a cui aveva chiesto di fare da autista (e lui eccitato, frastornato e
assolutamente inesperto di lunghi viaggi, aveva detto sì). Lo schianto contro
un camion (che aveva inchiodato a sua volta per non tamponare un piccolo
trattore che stava spruzzando disinfettante contro le zanzare) fu
violentissimo.
Morì Ronnie il giovane autista, morì Sam l’avvocato debosciato, e morì lei, Jane Mansfield, la bomba sexy dal
cervello di un genio. Morì di una morte orribile: decapitata. Aveva da poco
compiuto 34 anni. L’orrore che si presentò ai soccorritori fu tale che qualcuno
svenne, qualcun altro vomitò. I tre bambini si salvarono: un miracolo, che
altro? Feriti, sì, segnati per sempre da quella sconvolgente esperienza e dalla
morte tragica della loro mamma, ma salvi. E la piccola Mariska Hargitay che in quel 1967 aveva tre anni, ora è diventata
un’attrice affermata da 12 milioni di dollari a cachet, beniamina di una delle
serie TV americane più seguite, vincitrice di Golden Globe e Emmy Award:
è lei, infatti la detective Olivia Benson di “Law & Oder- Unità vittime
speciali” che interpreta dal 1999. Ha lo stesso sorriso della sua bellissima e
sfortunata mamma, ma per fortuna non la sua dannazione.
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