I MOTI DEL PENNACCHIO PER RICORDARE, A CINQUANT’ANNI, LE BARRICATE PER IL CAPOLUOGO A PESCARA REGGIO E L’AQUILA.

Imminente l’uscita del nuovo libro di Antonio Andreucci, giornalista e scrittore,

per One Group Edizioni

Un filo invisibile lega tra loro L’Aquila, Pescara e Reggio Calabria: tutte e tre lottarono cinquant’anni orsono per ottenere il capoluogo delle rispettive Regioni, i cui Statuti furono approvati, mezzo secolo fa, dopo dure sommosse popolari. L’Aquila rappresentò l’ultimo anello di una catena di un malcontento che si evidenziò nel giugno del ’70 in riva all’Adriatico, poi, dal luglio successivo fino al 24 febbraio del ’71, sullo Stretto e, infine, dal 26 al 28 febbraio seguenti, sotto al Gran Sasso.

Quelle rivolte vengono analizzate ne I Moti del pennacchio – Pescara, Reggio e L’Aquila. Le barricate per il capoluogo (One Group editore, 152 pag. 17,99 euro ordinabile su www.onegroupedizioni.it/i-moti-del-pennacchio, Amazon e principali librerie) di Antonio Andreucci.

“Attento osservatore della realtà – osserva Marco Patricelli nella prefazione -, l’autore applica la sua lunga esperienza giornalistica per l’Ansa a una rigorosa ricostruzione che è anche inchiesta documentata su ciò che fu e perché si innescarono sanguigne passioni, accese rivalità, strategie da consumati giocatori di scacchi sul tavolo della politica, in alternanza a mosse avventate in piazza e in strada. Ribollì la società di tre città per l’incapacità tutta politica dapprima di indicare, quindi scegliere, il capoluogo di regione secondo la miglior soluzione possibile, poi per la ricucitura col filo del compromesso. La toppa peggio del buco.”

I Moti sembrano una pagina polverosa del nostro passato, capace però di rinnovare emozioni in chi li visse come tributo a disegnare questo presente o quello che si immaginava diverso. Non fu una questione di campanile, come si etichettò il montare della rabbia non sempre spontaneo e quasi mai sotto controllo, ma uno scontro di mentalità per i tempi che stavano cambiando e di cui pochi avevano afferrato la portata epocale.

Oltre ad analisi sociali e politiche, il libro “smonta” alcuni luoghi comuni: non furono sommosse fasciste, ma popolari ed eterogenee sotto i profili culturale e politico nelle quali i “rossi” di Lotta continua agivano assieme ai “neri” del Msi e alla cosiddetta “società civile”; nessuna città aveva una titolarità storica e giuridica per rivendicare il “pennacchio” di capoluogo regionale; sotto il “profilo tecnico”, L’Aquila fu la più danneggiata e, come Reggio, oltre al danno subì una particolare beffa. La politica si confermò incline al “particulare”, incapace di avere una visione kantiana dei problemi messi a nudo da quelle rivolte.

A mezzo secolo dai fatti cosa resta di quelle sommosse e cosa sono quelle città? Il libro sfata le dicerie e formula delle risposte che riguardano idealmente anche il Mezzogiorno d’Italia.

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