La devastazione delle cave in Provincia di Caserta

Come ha denunciato Legambiente in un dettagliato rapporto nazionale del 2017, in Provincia di Caserta esistono 317 cave abbandonate, 59 chiuse, almeno 26 abusive e 46 autorizzate: sono questi i numeri sulle attività estrattive nei 104 comuni che compongono Terra di Lavoro, la quale  detiene cosi il triste primato sia per numero di cave presenti sia per la pressione che tali attività generano sul territorio. In questa Provincia è presente una cava ogni 5,8 chilometri quadrati, più del doppio rispetto alla densità del resto della Regione. Per rendersene conto basta osservare lo stato dei monti Tifatini, nell’area fra Capua e Maddaloni, una zona già nota come “La città Continua”, oggi profondamente segnata dai 20 siti estrattivi presenti, con fronti di cava enormi, visibili da ogni punto della città, come la cava Vittoria della Cementir a Maddaloni o come la cava Statuto, nel Comune di San Prisco (CE). Con una grave devastazione del paesaggio a Caserta e dintorni nonostante l’area sia soggetta a numerosi vincoli, ambientali, archeologici, paesaggistici ed idrogeologici. In alcuni casi per estrarre calcare sono stati “strappati” di fatto porzioni di montagna senza creare le strutture necessarie per il ripristino dell’habitat naturale se non attraverso nuovi prelievi di materiale.                                                                                         Dopo tante denunce e dure battagli (anche giudiziarie) per ora le attività estrattive sono state fermate con decreto regionale, come pure sono state chiuse quelle dei due cementifici (Cementir e Mocci). Il problema paesaggistico non è l’unico elemento che emerge, con la distruzione e depauperamento di alcuni beni comuni, di un habitat naturale ed agricolo di grande valore. Basti pensare che L. Vanvitelli scelse l’area dove realizzare il grande Palazzo Reale, in quanto fu affascinato dallo sfondo delle colline Tifatine. A questo scempio naturale si aggiungono le modalità con il quale alcune “coltivazioni” di cava sono state portate avanti con l’influenza esercitata dalle attività dai clan camorristici della zona, che proprio dalle attività estrattive fanno il punto di partenza per i loro traffici legati al ciclo del cemento e a quello dei rifiuti, come ha denunciato la Commissione parlamentare di inchiesta.                                                                                    Inoltre, va messo nel conto il pesante dissesto idrogeologico, che in questi giorni si è evidenziato con le bufere di vento, che oggi risultano più tempestose per l’area casertana in quanto manca la protezione naturale che finora veniva offerta dalle stesso colline (alcune delle quali sono quasi scomparse). A questo si aggiunge un altro rischio molto serio ed inquietante: quello che potrebbe essere prodotto dalle frane negli invasi che tendono a riempirsi di acque piovane. Come sostengono alcuni esperti ingegneri idraulici qui nel futuro si potrebbe verificare una sorta di “effetto Seveso”, ai danni del territorio e della conurbazione casertana anche  a seguito dei mutamenti climatici (come si è visto di recente in diverse regioni italiane.                                     Per questi motivi ribadiamo le ragioni del nostro appello per rompere lo stato dominante di inerzia, di silenzio e di indifferenza (a volte anche di connivenza), per chiedere ai Sindaci della zona ed alla Regione di andare avanti con un piano di risanamento ambientale e di recupero dei siti estrattivi con progetti di riuso sociale e produttivo. A tal fine un contributo competente può essere

offerto dall’Università e dal Dipartimento di Scienze Naturali, anche riprendendo una proposta di alcuni anni fa, in collaborazione con le risorse che possono mettere in campo le associazioni ambientaliste (a partire proprio da Legambiente, Italia Nostra, WWF e LIPU).

Pasquale Iorio                                                                   Caserta, 3 dicembre 2020

Le Piazze del Sapere

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