QUANDO BASTAVA POCO PER ESSERE FELICI, STORIE DI VITA IN ABRUZZO

Santino Strizzi, ragazzo di un borgo diventato Chef di successo, ricorda l’infanzia e la mamma

di Domenico Logozzo

C’era una volta. Il rito dei panni lavati al fiume e i ricordi del ragazzo abruzzese con tanti sogni, diventato poi un personaggio di primo piano nel mondo della buona cucina italiana. Protagonista Santino Strizzi, vicepresidente dei Cuochi di Villa Santa Maria (Chieti), una vita tra i fornelli di prestigiosi Grand Hotel anche di fama internazionale. Da quando aveva 14 anni ha preso… per la gola migliaia di buongustai, inventando centinaia di ricette. In pensione con la qualifica di Food & Beverage Manager-vice direttore d’Hotel, oggi si definisce “un free-lance della cucina” e fa serate a tema, corsi di sculture vegetali e frutta, corsi di sommelier, serate dedicate ai risotti (683 ricette diverse fino ad ora). “Mi diletto anche a fare i piatti per il piacere di farli gustare agli amici”. Genialità e grandi passioni, come quella per le “cravatte creative”. L’ho conosciuto personalmente a Chieti in occasione della mostra del bravissimo vignettista-caricaturista Franco Pasqualone e dell’artista Patrizia Mancinelli. Santino sfoggiava una cravatta creata da un dipinto della Mancinelli.

Uomo buono, di grande sensibilità. Molto legato alla famiglia e alle tradizioni, ai ricordi del lontano passato. Quando bastava poco per essere felici. In occasione del compleanno della mamma Lucia, Santino ha pubblicato su Facebook una foto che si legge come un racconto. Una vita non facile. Telefono a Santino. Gli esprimo la mia ammirazione per la scelta di quella foto, che onora il pensiero della mamma. Mi ringrazia e mi conferma che, sì, quella immagine è simbolicamente un libro, con tante pagine sorprendenti, ricche soprattutto di buoni esempi per i giovani di oggi e per le generazioni future. Mi manda altre foto e scrive: “Storie di mamma Lucia Pacella a Quadri e nei paesi limitrofi”. Un atto d’amore e una dedica. “Questo ricordo di Santino Strizzi è dedicato alle nostre mamme e nonne che con grandi sacrifici ci hanno fatto crescere anche non avendo NIENTE”.

Mette insieme tanti appassionanti e commoventi capitoli di storia. A partire da quello che definisce un “rito” molto vecchio. “Quello di lavare i panni al fiume, era un rito antico, un lavoro molto pesante”. Solo che “quando venivano anche le ragazze, era tutto molto più piacevole. Pettegolezzi a parte, si sentivano dei canti bellissimi: allietavano e nello stesso tempo alleviavano la fatica”. Santino era un ragazzo che non si tirava mai indietro. Tanto che oggi dice: “Per me era una grande gioia quando mamma mi proponeva di accompagnarla al fiume”. Si sofferma sui particolari: “La bagnarola “zincata”, piena dei panni sporchi di una settimana, piuttosto pesante. Veniva portata in testa dalle donne. Per cercare di rendere alleviare la sofferenza, si usava la “sparra” (una imbottitura a forma di ciambella che faceva da… ammortizzatore tra la testa e la “bagnarola”). Dalla ferrovia raggiungevamo la ripida discesa che portava al fiume. Una stradella tra i rovi di more, che noi chiamavamo “miricoli” e cespuglietti di prugne”.

Eccoci sulla sponda del fiume Sangro. Sempre nei soliti posti, dove l’acqua scendeva lenta e dove le grandi pietre, dette “loice”, sembravano messe lì proprio per poter “strofinare” i panni sporchi con il sapone fatto molto in casa. Sapone ottenuto con il recupero dei grassi animali (prevalentemente di maiale), soda ed altro ancora”. Un “rito” che esigeva anche particolari precauzioni per non prendersi qualche malanno. Riprende Santino: “Di solito non si andava la mattina presto, perché l’acqua era molto fredda, ma verso le 10 o nel primo pomeriggio. Io portavo i… viveri, la cosiddetta “mappina” (“mappoina”, in dialetto quadrese) con qualcosa da mangiare e l’acqua da bere. Per pescare portavo la lenza fatta in modo artigianale: una canna con un chiodino piegato e trasformato a mo’ di uncino dove si agganciavano “le rangitielli” o i vermetti per attirare qualche pesce. Il fiume in quegli anni era ricco di arborelle, barbi, trote e gamberi. L’acqua era molto pulita e scendeva dolcemente, accarezzando le pietre, che spesso, in alcune zone erano ricoperte di muschio”.

La passione sportiva di Santino ed il lavoro paziente delle donne. “Alcune volte venivano anche altre signore, dello stesso quartiere, ma vigeva il silenzio, rotto dai panni che venivano sbattuti sulle rocce. Le postazioni di lavaggio migliori, erano molto ambite. Una volta lavati i panni venivano messi ad asciugare al sole, sui cespugli e altre piantine, in modo che al ritorno pesassero un po’ di meno”. Santino commenta: “Il tutto veniva fatto con gioia”. E ricorda che “prima di riprendere la via di casa si lavavano piedi, le braccia e il viso. I panni, ripiegati e sistemati nella “bagnarola”. Tutto con estrema cura”. Santino e l’orgoglio di essere d’aiuto alla mamma. “A quel punto la mia presenza mi rendeva importante. Dovevamo portare la “bagnarola” fino alla ferrovia, tirandola su per la stradina che ci appariva ancora più ripida di quando eravamo arrivati. Fatto quel difficile percorso, ancora era necessaria la mia collaborazione. Aiutavo infatti mia madre a mettere la bagnarola in testa. Si tornava a casa felici e soddisfatti, con un profumo inebriante, quello del sapone usato per lavare i panni”. Il lavoro non era fatica. Perché si faceva con amore e passione. Conclude Santino: “Questa era la lavatrice di una volta. Ora è tutto più semplice perché ognuno ha in casa sia l’acqua che la lavatrice”.

Una pagina dopo l’altra, Santino, che come cuoco aveva seguito le orme del papà, sfoglia l’album della memoria, rendendo omaggio a mamma Lucia e alla sua buona cucina. “Su una tavola (spianatoia), ammassava la farina, presa da un sacco raffigurante due mani (una con la bandiera italiana e una con quella americana) con su scritto: “Dono del popolo americano”. E faceva l’impasto con farina e acqua”. Il taglio variava: “sagne a pezz’” (rombi grandi); “tagnarelli” (come le tagliatelle, ma più tozze e un po’ più strette); le “sagnette” (tagliatelle spezzate di 3-4 cm.) e i “rombetti” o “tacconelli” (piccoli rombi). “La pasta veniva lavorata con la forza delle mani e delle braccia. Le mamme, anche se esili, avevano una grande forza: quella della disperazione! Tante bocche da sfamare. Eravamo 7 figli (uno purtroppo era morto da ragazzino). Il sugo normalmente era fatto con un po’ di grasso di maiale, la cipolla presa nell’orticello vicino casa e qualche pomodoro “sfracchiato” (schiacciato) con le mani. In quel periodo sembrava un cibo “povero” e ripetitivo, ma oggi quel piatto non lo cambierei nemmeno con una aragosta”. Detto oggi da un maestro della cucina, che grande complimento per mamma Lucia!

Il menù aveva anche altre variazioni – ricorda il noto chef – ed erano “il condimento con legumi, ceci, fagioli, lenticchie e cicerchie. La domenica le “sagne” venivano fatte con un sugo di carne, ritagli di agnello e muscolo di vitello. Variava pure la pasta della domenica: gnocchi di patate o tagliatelle all’uovo. Nei giorni di festa si faceva “la zite” con il sugo misto, oppure pasta al forno. Nei periodi freddi, polenta con fagioli o con il sugo di maiale e, se c’era, anche qualche salsiccia fatta in casa. Adesso si lamentano perché manca un ingrediente di una certa marca. Mia mamma ci faceva mangiare, con il bilancino vicino allo zero. Eravamo felici e belli. La nostra merenda era una fetta di pane con un filo di olio e una spolverata di zucchero”. Santino ricorda e si commuove: “La giornata di mia madre, dopo la cucina, era quella di rattoppare i buchi dei vestiti, lavare e stirare. Per stirare i vestiti si adoperava un ferro che per renderlo caldo si mettevano dentro i carboni. E ogni tanto si doveva usare un ventaglio per farli riaccendere. Lo sguardo di una mamma verso i propri figli, con un velato sorriso ricco di gioia, era vera commozione”.

Gli anni difficili della Seconda Guerra Mondiale. Ancora la grande forza e il coraggio di mamma Lucia. “Durante la guerra, nella battaglia del Sangro tra esercito alleato che risaliva l’Italia e i tedeschi occupanti (ottobre-dicembre 1943), fu bombardato Quadri e la maggior parte degli abitanti scapparono dal paese. Mia madre con la culla in testa con uno dei miei fratelli, uno in braccio e l’altra appiccicata alla gonna si diresse dapprima verso Bomba. Dopo pochi giorni vennero sfollati in Puglia, a Castellaneta, in provincia di Taranto. Sistemazione precaria in una cantina, accanto alla casa dove nacque Rodolfo Valentino. E lì è nato uno dei miei fratelli, Luigi”. Santino conclude con un elogio al sacrificio e al buon esempio. “Per guadagnare qualche cosa, mio fratello più grande, Nicola, andava a suonare le campane e aiutava il prete come sacrestano. Mentre mia madre andava a raccogliere i gusci di mandorle per accendere il fuoco. La vita delle mamme di allora, che non si lamentavano mai, era molto dura”.

*già Caporedattore centrale TGR Rai

Foto:

1-Quando non c’era la lavatrice. Mamma Lucia e il “rito di lavare i panni al fiume”.

2-Mamma Lucia, il volto della serenità, della forza e della dignità delle donne d’Abruzzo.

3-Santino Strizzi

4- Santino Strizzi, secondo il vignettista Franco Pasqualone

5- Santino (il primo da destra) con i suoi amici d’infanzia

6- Santino Strizzi, giovanotto con tante ambizioni, con mamma Lucia

7- Santino riceve un premio e condivide la gioia con mamma Lucia

8- Santino con mamma Lucia

9-Mamma Lucia e papà Angelo Strizzi. A 14 anni Santino ha iniziato a lavorare sulle orme del padre.

10-Mamma Lucia è rimasta sempre molto legata alla campagna.

11- Santino ha sempre lavorato intensamente, fin da giovanissimo.

12- Santino, una vita tra i fornelli.

13- Daria Bignardi, sorridente dopo avere gustato i buoni piatti dello chef Santino Strizzi.

14- Santino Strizzi ama molto indossare cravatte create da bravi artisti.

0 Comments

No comments!

There are no comments yet, but you can be first to comment this article.

Leave reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *