Una storia di disumana quotidianità, in una città sempre più ostile

L’Aquila, 10 novembre 2021 – Ormai sono in pensione da diversi anni. Devo confessare che l’andarmene dalla casa-famiglia non è stato agevole sia dal punto di vista emotivo, sia dal punto di vista istituzionale. L’ho sempre considerato un lavoro “atipico”, dove non era tanto lo svolgere il proprio dovere, timbrare il cartellino, stare dentro determinate regole; la casa era soprattutto una creatura propria, che ho contribuito a creare, con tanto di entusiasmo e coinvolgimento personale condiviso con 58 operatori.

Sotto l’illuminata guida di Padre Serafino Colangeli, e la supervisione di una équipe di tutto rispetto  (la Dott.ssa Silvia Soccorsi, il dott. Claudio Del Bufalo, il dott. Sandro Sirolli con la Sig.ra Noemi D’Addezio, la Dott.ssa Dufrusine Maddalena, il Dott. Placidi Ernesto) nascevano le prime case-famiglia a L’Aquila della Piccola Opera Caritas (POC), come primi virgulti, in Italia, di una primavera di speranza per tanti “prigionieri” della propria malattia, legiferata  poi, due anni dopo, dalla Legge Basaglia che aboliva i manicomi.

Dovete sapere che la formula casa/famiglia era da noi concepita come una vera e propria famiglia, sostitutiva di quella originaria, dove due operatori, uno maschile e l’altro femminile, erano sostitutivi delle figure genitoriali. Operatori unici che provvedevano alle necessità di ogni genere, come in una vera famiglia, 24 ore su 24 (ovviamente, e solo successivamente, a turno).

Immaginate voi come potevo sentirmi coinvolto in maniera totale. Era una questione di cultura per una nuova èra di politica socio-assistenziale; era questione di giovane, fresca, avvincente novità; era anche e soprattutto una questione di nuova ed emergente giurisprudenza sociale. Eravamo protagonisti di un cambiamento epocale.

Questo sistema funzionava e i risultati, in termini di recupero psico-fisico, erano evidenti; ma era un assetto molto più dispendioso di quello dei precedenti istituti, dove fino a poco prima, ed anche durante, molti soggetti erano reclusi. Vennero aperte diverse case/famiglia in Abruzzo di diverse tipologie, legate allo stato di difficoltà degli ospiti lì presenti (casa/famiglia residenziale, semi autonoma, o autonoma).

La capacità di coinvolgimento istituzionale di Padre Serafino, grazie alla sua autorevolezza, in cerca di sostegno finanziario per il progetto di riforma, si scontrò alla fine con la mancanza di una adeguata normativa regionale che potesse far fronte al nuovo sistema socio-assistenziale creato dalle case-famiglia dal basso, dal privato.

Mi accorsi subito che da soli avremmo potuto fare poco, tanto la novità e l’impatto sui sistemi consolidati erano dirompenti. Per questo trovai nel sindacato una sponda formidabile di sostegno. Io aderii CISL, ed anche tutti i dipendenti, chi ad uno e chi ad una altro sindacato, unitariamente.

Fu veramente avvincente quel periodo dei primi anni ’80, nei quali ci sentivamo tra il rivoluzionario e l’innovatore, attivando una fitta azione di rivendicazione nei confronti della Regione e degli altri Enti. Gli operatori tutti, ed anche i genitori dei ragazzi, furono coinvolti in manifestazioni continue e pressanti cui la stampa locale, e non solo, dette grande risalto.

In qualità di responsabili sindacali coinvolgemmo attorno ad un tavolo la Regione Abruzzo, il Ministero della Sanità, il Ministero degli Affari Regionali, il Ministero del Lavoro su una proposta di Legge regionale che salvaguardasse da un lato la nuova politica socio-assistenziale rappresentata dal sistema delle case-famiglia e dall’altro i livelli occupazionali.

Non fu facile giuridicamente, ma al termine di estenuanti tentativi, fu approvata la Legge Regionale n. 58 del 1984 che istituiva il Presidio Pubblico Multizonale di Riabilitazione e lo affidava alle cure della ASL dell’Aquila. E qui, mentre da un lato gli operatori ottennero finalmente la tranquillità economica, c’è da dire che l’incompetenza e la noncuranza ebbero il sopravvento nei confronti di una esperienza che avrebbe potuto rappresentare per la città e per la Regione Abruzzo il fiore all’occhiello da imitare a livello planetario.

La potenzialità che la Legge Regionale offriva era di grandissima evidenza: il Presidio Multizonale avrebbe potuto e dovuto instaurare convenzioni, intese, accordi con tutti i settori della disabilità non solo regionali, ma anche di altre Regioni, ampliando l’esperienza ed esportando sistemi, innovazioni, studi ecc.

L’incompetenza è il tumore della Pubblica Amministrazione!

Da troppo tempo ormai in Italia nei posti di responsabilità vengono preferiti personaggi che nulla hanno a che vedere con i servizi che sono chiamati a dirigere. Fateci caso. Trovi ingegneri a coordinare settori del turismo, avvocati in settori sanitari ecc., con il sicuro risultato di depauperamento delle azioni della Pubblica Amministrazione. L’incompetente è inoperativo perché ha paura di sbagliare, ma soprattutto è demotivato e crea attorno a sé un muro di indifferenza nei confronti del bisogno. E’ la sciagurata sorte che è capitata al Presidio ex POC. Spostamenti di dirigenze in successione rapida, dove non erano chiare né responsabilità né competenze (inesistenti). Abbiamo rimpianto amaramente i tempi della forte leadership dei fondatori.

Il pubblico ha garantito la sussistenza economica ma, inesorabilmente, ha distrutto l’anima del Presidio. Ha sapientemente atteso che tutti i 58 dipendenti della ex POC arrivassero alla quiescenza per poter liberamente dichiarare conclusa l’esperienza, perché in ciascuno di quei 58 c’era lo spirito originario, combattivo, di tutela del servizio e dei ragazzi ospiti.

Ora apprendo dai giornali che l’unica casa-famiglia rimasta verrà smantellata e chiusa definitivamente. Mi chiedo, con quale titolo la ASL “chiude” il Presidio Pubblico Multizonale di Riabilitazione istituito con Legge Regionale e affidato alle proprie cure? Non alla sua disponibilità.

Perché la ASL, come avrebbe dovuto, per Legge, non ha potenziato i servizi, dotando la pianta organica delle figure professionali lì indicate, con la presa in carico di tanti disabili, che per comodità e logiche perverse del “dolce far niente” (a proposito di incompetenze) sono stati mandati in strutture fuori Regione con notevolissime spese a carico dei contribuenti? Non sarebbe il caso di conteggiarne il numero e le spese?

In questi tempi di rinnovato bisogno per i più deboli, il Presidio potrebbe essere uno strumento di rivalsa civile e morale. Una risposta concreta e perfino economica di gestione delle criticità psichiatriche e sensoriali con le quali tantissime famiglie sono costrette a convivere quotidianamente, nella disperazione e l’indifferenza di tutti.

Il ricorso alla progettazione socio-sanitaria, all’associazionismo privato, molto attivo nel territorio regionale, alle intese istituzionali fra Enti coinvolti possono “reggere” la scommessa di autosussistenza. Sarei pronto a mettere in campo la mia esperienza, gratuitamente, per un ideale del genere, ma anche e soprattutto per non darla vinta all’incompetenza, con le sue conseguenze di distruzione.

Il forte coinvolgimento degli operatori era frutto dell’amore, dove perfino la mancanza di specifiche tecniche erano brillantemente superate facendo ricorso alle logiche materne. All’amore caritatevole: quello incondizionato verso i deboli. Sono riconoscente a Dio per avermi dato il dono dell’amore per i poveri e la mia anima è felice nella certezza che quando sarà il mio momento, chiamerò al cospetto di Dio i miei angeli custodi (i ragazzi della casa-famiglia) come testimoni di carità.

Paolo Giorgi (detto Pierino)

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