Addio, Partiti!

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L’inizio della “cosiddetta” crisi dei partiti in Italia, convenzionalmente, si può indicare con una data ben precisa: 29 giugno 1993. (Poi vedremo perché “cosiddetta”). Era un martedì e, nello studio del Notaio Roveda, a Milano, Silvio Berlusconi e un manipolo di fedelissimi (Marcello Dell’Utri, Antonio Martino, Gianfranco Ciaurro, Mario Valducci, Antonio Tajani, Cesare Previti e Giuliano Urbani) fondarono “Forza Italia! Associazione per il buon governo”.
Mani Pulite aveva scoperchiato il vaso di Pandora, portando alla luce un sistema marcio fino al midollo. Sistema che aveva reso la vita felice alle potenti lobby industriali, a cinici affaristi di ogni ordine e grado e a tanti politici senza scrupoli.
L’intrepido costruttore si rese subito conto che vi era un vuoto da colmare e pensò di individuare qualcuno che potesse “sostituire” il suo amico Craxi, sepolto da un mare di monetine dopo essere stato torchiato a fuoco lento da Di Pietro, nel famoso interrogatorio. Puntò, come noto, su Mariotto Segni, figlio dell’ex presidente della Repubblica Antonio, al quale propose di guidare una coalizione di centro-destra. Le cronache riportano che Mariotto rifiutò, ma per quanto ne so io le cose andarono diversamente: fu scartato quando in Fininvest si resero conto che modalità comportamentali, idee e propositi erano inconciliabili con gli scopi del gruppo. (Nella fiction “1992”, ideata e interpretata dal popolare attore Stefano Accorsi, vi è un preciso riferimento alla “bocciatura” di Segni).
Berlusconi, che non ha mai perso tempo, capì che toccava a lui scendere in campo, “per risolvere i suoi problemi”, e in pochi mesi mise in moto quella formidabile armata che, dopo il varo ufficiale come movimento d’opinione (nascita dei “Club Forza Italia” nell’ottobre del 1993, dei quali nega, mentendo, la futura evoluzione in partito), in partito si trasforma il 18 gennaio 1994. Dopo solo due mesi “Forza Italia” fu capace di raccogliere la bellezza di 16.585.516 voti alle elezioni politiche, sgretolando la “gioiosa macchina da guerra” di un attonito Occhetto, che sulla propria vittoria avrebbe scommesso anche un miliardo.
Quello che è accaduto dopo, è ben noto. Tutti i partiti si sono dovuti “adeguare” alle regole imposte dal novello primo ministro, trasformandosi rapidamente in “comitati elettorali” scevri di qualsivoglia connotazione ideologica.
Le sigle si moltiplicano a dismisura, salvo poi sparire e rinascere sotto altre forme; prendono forma i partiti “fai da te” e quelli improntati sulla figura di improvvisati leader. Si formano coalizioni forzate e pasticciate, tra soggetti che si detestano vicendevolmente, accomunati solo dalla volontà di vincere le elezioni e gestire un po’ di potere.
Tutti, in buona sintesi, da destra a sinistra, emulano le nuove formule comunicative e propositive imposte dall’affabulatore di Arcore. La televisione sostituisce le piazze e coloro che non riescono ad adeguarsi al nuovo corso, che richiede di “apparire” piuttosto che di “essere”, sono irrimediabilmente destinati a una fine ingloriosa. Con l’avvento di Grillo, poi, le cose cambiano ulteriormente.
Si potrebbe scrivere a lungo, ma su quanto accaduto nell’ultimo quarto di secolo si è detto praticamente tutto quello che è possibile dire “oggi” e quindi è inutile ribadire concetti triti e ritriti. Molto più interessante, invece, è cercare di comprendere cosa vi sia “realmente” dietro l’implosione dei partiti tradizionali. Ciò che “appare”, infatti, è cosa ben diversa dalla realtà. Spesso si dice che i politici (e quindi i partiti di cui fanno parte) siano lo specchio della società e ne riflettono tutte le distonie.
Questo dato, ancorché veritiero, non è sufficiente a inquadrare il problema nella sua essenza più recondita, che afferisce precipuamente al comportamento delle persone, mutevole a seconda delle diverse sollecitazioni.
Prima dell’avvento di Berlusconi i partiti erano caratterizzati da una forte caratura ideologica. A destra e a sinistra più marcata che altrove, certo. Tutti, però, erano pervasi da un profondo substrato di carattere culturale, che affondava le radici nel pensiero dei vari ispiratori.
I miei coetanei sanno bene che, fino alla metà degli anni ottanta del secolo scorso, tanti giovani (e anche meno giovani) trovavano del tutto naturale rischiare la vita e la galera per difendere le proprie idee. Fino a che punto però, queste persone, meritevoli del massimo rispetto a prescindere dalla collocazione politica, sono state capaci di “mantenere” analoghi alti presupposti quando, riuscendo a emergere su altri, hanno conquistato fette di potere?
Gli esponenti della cattolicissima “Democrazia Cristiana”, non devo certo ricordarlo, con le connessioni mafiose e le ruberie di stato hanno meritato molti più posti all’inferno che in paradiso. I loro colleghi del pentapartito, eredi della tradizione liberale, repubblicana, risorgimentale, a chiacchiere celebravano i Maestri Pensatori e nei fatti rubavano a man bassa. Dove albergava la consistenza ideologica di alto profilo dei partiti tradizionali? Di sicuro nelle sezioni frequentate dagli “idealisti infervorati”, non certo nei palazzi del potere dove imperavano coloro che in passato avevano dimostrato pari fervore ideale. Lo stesso Partito Comunista, che più di altri aveva puntato sulla cultura come elemento fondante per la conquista del potere, non era immune dalle contaminazioni discutibili e dei socialisti non è nemmeno il caso di parlare.
La Destra post-bellica si ritrovava nel Movimento Sociale Italiano, dove convivevano, non senza difficoltà, correnti di pensiero eterogenee e talvolta palesemente contrastanti, amalgamate solo dallo straordinario carisma di Giorgio Almirante.
Vi erano soggetti di altissimo profilo culturale, nel vecchio MSI, e uomini che facevano tremare i polsi ogni volta che aprivano bocca. Ve li ricordate, voi lettori che avete affinità culturali con il “Pianeta Destra”? Spero di sì. Di sicuro vi ricordate meglio coloro che “sono emersi”, nessuno dei quali appartenente al gruppo di cui sopra e tutti attratti dalle lusinghe berlusconiane, le cui paludi, in massima parte, continuano a navigare con pieno godimento.
La crisi dei partiti, di fatto, non è mai avvenuta. E’ solo capitato, un po’ per caso e un po’ per necessità, secondo i princìpi magistralmente illustrati da Jaques Monod nel suo celebre saggio, che sia stata rimossa la massiccia coperta di ipocrisia che copriva una intera umanità, portando a nudo non già le problematiche di “strutture organizzate”, ma le debolezze degli esseri umani. Non è stato sempre così forse? La storia cosa c’insegna se non l’incapacità dell’uomo a interpretare in modo degno gli insegnamenti scaturiti dal suo stesso pensiero, concepiti per autogovernarsi al meglio?
Non stiamo vivendo “una crisi dei partiti”. Non esiste. Semplicemente stiamo registrando la fase (conclusiva? ancora transitoria?) di quel processo di trasformazione sociale iniziato con i tre grandi avvenimenti del 18° secolo: rivoluzione industriale, affrancamento degli Stati Uniti dalla madre patria, rivoluzione francese.
Non mi stancherò mai di ripeterlo: l’uomo contemporaneo nato dagli sfaceli rivoluzionari non ha ancora decantato un processo evolutivo che gli consenta di essere arbitro “imparziale” del proprio destino e di quello dei propri simili, quando è chiamato a decidere anche per loro.
Devo forse ricordare ai lettori di questo magazine di che pasta fosse fatta la stragrande maggioranza dei gerarchi fascisti e degli stessi membri del Gran Consiglio, fatte salve le dovute eccezioni? Devo ricordare le casse di oro rinvenute a Dongo con le fedi offerte dalle estasiate donne italiane? Il forte gap tra progresso tecnologico e progresso umano, i bagliori offerti da un mercato fortemente soggiogante, la progressiva perdita di “cultura”, accresciuta in modo esponenziale nell’ultimo trentennio, cosa potevano produrre di diverso da ciò che hanno prodotto? Chi, oggi, perde tempo a studiare i classici della politica e della filosofia? Siamo capaci di guardarci intorno con occhio vigile per vedere da cosa e da chi siamo circondati?
Qualche tempo fa provai a chiedere, a un giovane studente universitario di Scienze Politiche, di parlarmi del “mito della caverna”. Mi guardò con l’aria compiaciuta di chi è ben felice di fornire una risposta gradita. Il caso volle che fosse appena rientrato da una vacanza a Dublino e ben conoscesse la mia passione per l’Irlanda e per il mondo celtico. Non ebbe alcun dubbio, quindi, circa l’essenza della domanda. “Oh Lino! Meraviglioso!!! Un ristorante italiano nel cuore di Dublino, nel quale sia possibile degustare anche la cucina tradizionale irlandese, ascoltando tanta musica celtica, è davvero il massimo! E che ambiente!!! Ma come sai che vi sono stato???”
Di cosa vogliamo parlare più? Di ciò che sarà? Spazio terminato, per fortuna. Dovrei spiegare, altrimenti, perché Di Maio sarà il prossimo capo del governo e soprattutto perché è giusto che ciò accada. Roba da mal di testa.

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