ARTHUR SCHOPENHAUER

 Arthur Schopenhauer (Danzica22 febbraio 1788 – Francoforte sul Meno21 settembre 1860) è stato un filosofo tedesco.

« La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente tra il dolore e la noia, passando per l’intervallo fugace, e per di più illusorio, del piacere e della gioia. »

Figlio di un ricco mercante, Heinrich Floris, e di una scrittrice, Johanna Henriette Trosiener, nel 1805, alla morte del padre, si stabilì a Weimar con la madre. Qui conobbe Christoph Martin Wieland e Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Contrario ad ogni mondanità, si ritirò in solitudine per portare a termine gli studi. Con buoni studi alle spalle, dopo la morte del padre nel 1805, decise di dedicarsi alla filosofia e frequentò i corsi tenuti da Gottlob Ernst Schulze a Gottinga e quelli di Johann Gottlieb Fichte a Berlino. Nei confronti di questi, ma anche di Schelling e di Hegel, Schopenhauer nutrì sempre disprezzo e avversione, definendo Hegel “Il gran cialtrone”.

Nel 1809 s’iscrisse alla facoltà di medicina a Gottinga. Due anni dopo, nel 1811, si trasferì a Berlino per frequentare i corsi di filosofia. Ingegno molteplice, sempre interessato ai più diversi aspetti del sapere umano (frequentò corsi di fisica, matematica, chimica, magnetismo, anatomia, fisiologia, e tanti altri ancora), nel 1813 si laureò a Jena con una tesi Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente e, nel 1819, pubblicò la sua opera più importante, Il mondo come volontà e rappresentazione che ebbe tuttavia scarsissimo successo tra i suoi contemporanei e che incominciò a ricevere qualche attenzione solo vent’anni dopo. Infatti anche le successive edizioni del trattato furono accolte assai sottotono, nonostante fossero giunti, da più parti, persino riconoscimenti ufficiali, primo fra tutti la vittoria di un concorso indetto dalla Società delle Scienze norvegese, che egli conseguì nel 1839 con un trattato Sulla libertà del volere umano.

Dopo aver girato in lungo ed in largo l’Europa, e dopo una breve parentesi da libero docente universitario a Berlino (1820), dal 1833 decise di fermarsi a Francoforte sul Meno dove visse da solitario borghese, celibe, misogino. La vera affermazione del pensatore si ebbe solo a partire dal 1851, data della pubblicazione del volume Parerga e paralipomena, inizialmente pensato come un completamento della trattazione più complessa del Mondo, ma che venne accolto come un’opera a sé stante, uno scritto forse più facile per stile e approccio e che, come rovescio della medaglia, ebbe quello di far conoscere al grande pubblico anche le opere precedenti del filosofo. Fondamentalmente in pieno accordo con i dettami della sua filosofia, manifestò un sempre più acuto disagio nei confronti dei contatti umani (ciò che gli procurò, in città, la fama di irriducibile misantropo) e uno scarso interesse, almeno in via ufficiale, per le vicende politiche dell’epoca quali furono, ad esempio, i moti rivoluzionari del 1848; i tardi riconoscimenti di critica e pubblico servirono, suppositivamente, ad attenuare i tratti più intransigenti del carattere del filosofo, ciò che gli procurò negli ultimi anni della sua esistenza una ristretta ma interessata e fedelissima cerchia di (come egli stesso amò definirli) devoti “apostoli”, tra cui il compositore Wagner. Morì di pleurite acuta nel 1860.

Fenomeno e noumeno
Il mondo come rappresentazione 

Schopenhauer riprende da Kant i concetti di fenomeno e noumeno. Il fenomeno è il prodotto della nostra coscienza, esso è il mondo come ci appare mediante le forme a priori dell’intelletto (tempo, spazio, causalità), mentre il noumeno è la cosa in sé, fondamento ed essenza vera del mondo. Il fenomeno materiale è dunque per Schopenhauer solo parvenza, illusione, sogno, come in molta filosofia indiana, dalla quale egli prende spesso ad esempio il mito del velo di Maya; per questo il filosofo tedesco apre la sua opera principale con l’espressione il mondo è mia rappresentazione. Ma al di là di questa, che è vero strumento, necessario alla conservazione dell’esistenza della specie e dello stesso individuo, è la “cosa in sé” cioè il noumeno che l’uomo desidera conoscere per lenire il dolore e la miseria della propria vita. Proprio perché l’uomo sente questa necessità di conoscere il noumeno egli è un animale metafisico. La rappresentazione ha due aspetti essenziali: il soggetto rappresentante e l’oggetto rappresentato. Entrambi esistono soltanto all’interno della rappresentazione, come due lati o parti di essa, tanto che non può esistere soggetto senza oggetto.Il materialismo è falso perché nega il soggetto riducendolo all’oggetto o alla materia e pure l’idealismo (di Fichte) è errato poiché compie il tentativo opposto di negare l’oggetto riducendolo al soggetto.

Il mondo come volontà 

Se fossimo solo esseri conoscenti, rappresentanti, non potremmo mai scoprire la cosa in sé. Ma noi siamo anche corpo, la realtà delle cose ci concerne, siamo nel mondo come una sua parte; difatti vogliamo, desideriamo certe cose e certe altre le evitiamo, rifuggiamo il dolore e ricerchiamo il piacere. Proprio questo ci permette di squarciare il velo del fenomeno e cogliere la cosa in sé. Infatti, ripiegandoci in noi stessi, scopriamo che la radice noumenica del nostro io è la volontà: noi siamo volontà di vivere, un impulso irrazionale che ci spinge, malgrado noi stessi, a vivere e ad agire.

La volontà di vivere è in realtà non solo la radice noumenica del nostro io, ma di tutta la realtà. Infatti la volontà si oggettiva in tutta la realtà fenomenica: nelle cose inanimate, nelle piante, negli animali e nell’uomo (in cui raggiunge la massima consapevolezza). In quanto rappresentazione sorgente in un cervello animale, il fenomeno è dunque la volontà dispiegata in gradi diversi di oggettivazione (forze meccaniche, elettriche, chimiche, vegetative ed animali) e moltiplicata in innumerevoli individui sparpagliati nello spazio e nel tempo secondo il nesso della causalità. Dunque ogni estrinsecazione di tali forze in un punto dello spazio e del tempo, comprese le azioni e la vita stessa di ogni animale e vegetale, è solo la rappresentazione di un’idea (intesa nel senso platonico), di un tale preciso grado di oggettivazione della volontà. Tali idee, tali gradi di oggettivazione sono dunque estranee alle determinazioni di spazio e di tempo, sono anzi il fondamento e il senso ultimo di ogni qualità della materia e del nesso causale a cui sottostà qualsiasi rappresentazione. Eterne sono le idee, eterna è quindi la volontà di vivere di cui tutte quelle idee sono oggettivazioni; essa è aspaziale, atemporale, incausata, senza fine e senza scopo.

La conseguenza della finalità e dell’irrazionalità della volontà è l’insensatezza del mondo stesso e della vita di tutti gli esseri viventi in esso. È la volontà di vita – che in ogni cosa vuole realizzarsi nel suo grado, nella sua idea – a creare il mondo così come ci si presenta, come continua lotta di tutte le forze naturali tra loro per conquistarsi la materia necessaria alla loro estrinsecazione; è la volontà di vita a generare infine, per questa sua lotta, il dolore, la miseria e la morte in tutti gli esseri conoscenti e senzienti. La tradizione cristiano-giudaica trova un senso alla nostra vita postulando l’esistenza di un Dio, ma secondo Schopenhauer per Dio non si pensa altro che un essere conoscente che abbia voluto creare il mondo, cioè un essere che ha elargito agli uomini come un dono un tale miserevole stato di cose: un pensiero quindi davvero opprimente e aberrante.

Il pessimismo 
La volontà di vivere è causa di sofferenza per tutti gli esseri conoscenti, e in special modo per l’uomo, la cui maggiore razionalità rende infinitamente più dolorosa la sua vita rispetto a quella degli altri animali (infatti a differenza di essi l’uomo sa di dover morire, e si rappresenta anche dolori passati ed ansie future).

La volontà di vivere produce incessantemente nell’uomo bisogni che richiedono soddisfazione: desideri, che sono dunque reazione ad un senso di mancanza, di sofferenza. Difficilmente però tutti i desideri si realizzano, e la mancata realizzazione di alcuni di essi causa un’ulteriore, più acuta sofferenza. Ma, anche quando un desiderio viene soddisfatto, il piacere che ne deriva risulta essere solo di natura negativa, soltanto, cioè, un alleviamento della sofferenza provocata da quel prepotente bisogno iniziale; bisogno che subito riappare in altra forma, pronto a pungolare con nuovi desideri l’affannata coscienza umana. E quando pure l’uomo non viva nel bisogno fisico e nella miseria, quando nessun effimero desiderio (invidia, vanità, onore, vendetta) gli riempia i giorni e le ore, subito la noia, la più orrenda e più angosciosa di tutte le sofferenze, si abbatte su di lui. La vita umana è quindi un alternarsi di dolore e di noia, passando per la momentanea sensazione meramente negativa del piacere.

La volontà di vivere causa anche la lotta per la sopravvivenza tra gli esseri viventi in cui solo il più forte riesce a sopravvivere. Nonostante tutti gli esseri viventi siano oggettivazioni di un’unica volontà, si scannano tra di loro. Schopenhauer fa l’esempio delle formiche giganti dell’Australia il cui capo e la cui coda si separano e iniziano a lottare tra di loro, scannandosi a vicenda.

Iter salvifico 
Nonostante il suo pessimismo Schopenhauer rifiutava il suicidio. Questo per due motivi:

Il suicidio non è una negazione della volontà di vivere ma piuttosto una sua affermazione, poiché il suicida vuole porre fine alla propria vita.
Il suicidio è inutile poiché il suicida, suicidandosi, non elimina la volontà di vivere, ma solo una sua oggettivazione fenomenica; la volontà di vivere continuerà a oggettivarsi in miliardi di esseri viventi e cose inanimate.
Il filosofo propone allora un iter salvifico, alla fine del quale, l’uomo si può liberare della voluntas, causa di dolore, e giungere alla noluntas. La tappe sono 3:

L’arte:
 attraverso l’arte l’uomo non partecipa alla vita ma la osserva poiché l’arte è contemplazione della vita stessa, egli nell’arte trova conforto, poiché la voluntas non domina più completamente l’uomo ma si assopisce. L’arte però è una soluzione temporanea.
L’etica della pietà: questa è la partecipazione al dolore universale. Se riusciamo ad andare oltre alla nostra particolare vita, riusciamo a capire come in ogni vita, sia in quella del carnefice come in quella della vittima, ci sia il dolore come marchio fondamentale. L’uomo provando compassione per il dolore degli altri, non solo prende coscienza del dolore ma lo sente e lo fa suo accorgendosi veramente della voluntas che è inconscia. Il dolore unendo gli uomini li accomuna e li conforta. Ma anche questa soluzione è parzialmente momentanea.
L’ascesi: questa è la tappa in cui si verifica il passaggio dalla voluntas alla noluntas, l’uomo deve rinunciare a qualsiasi piacere fisico e di sussistenza vitale, e solo nel momento in cui rinunciando a tutto non desidererà più nulla, la voluntas si estinguerà e l’uomo sarà libero attraverso il nirvana, che è l’esperienza del nulla di essere tutto l’universo e non un individuo. È ovvio che sconfitta anche in un solo uomo la voluntas stessa, poiché è unica, è sconfitta in tutti gli uomini.

Influenze 
Nella sua dottrina, Schopenhauer fu influenzato da vari filosofi:

Platone:
 nella teoria delle “idee”, forme eterne dell’Iperuranio
Kant: Schopenhauer riprende i termini del problema kantiano del rapporto fra le cose come ci appaiono (fenomeno) e la cosa in sé (noumeno). Il fenomeno, ovvero le cose come ci appaiono che elaborate dalle forme a priori di spazio e tempo e dalla categoria di causalità (Kant ne aveva identificate 12 invece) danno vita alla scienza, è oggettivo ma non vero, perché offuscato dal ‘velo di Maya’, ovvero un velo che impedisce ai sensi di percepire la realtà. La cosa in sé (il noumeno) è, a differenza di quanto diceva Kant, conoscibile, e consiste nella volontà di vivere, presente in ogni cosa dell’universo.
Illuministi: Schopenhauer analizza il mondo da un punto di vista fisiologico, è critico e rifiuta l’Idealismo. In particolare riprende da Voltaire l’atteggiamento ironico e demistificatore nei confronti di religioni, credenze popolari e superstizioni.
Romanticismo: riprende alcuni temi: l’irrazionalismo, il dolore, l’importanza (catartica) dell’arte e della musica. Richard Wagner, in particolare, modificò la sua concezione dopo aver letto Il mondo come volontà e rappresentazione, specie nel testo de L’anello del Nibelungo (la cessazione della volontà di vivere che accompagna il personaggio di Wotan), nel Parsifal e nel Tristano e Isotta. Nel dramma wagneriano sono presenti la Volontà, il giorno in cui gli amanti non possono realizzare i loro desideri e la Notte in cui la loro unione si compie, superamento della Volontà,anche se “l’ascesi erotica” dei due amanti è destinata a concludersi nella loro tragica fine (cfr.F.Bolognesi “la vera dottrina dell’amore di Schopenhauer”).
Spiritualità indiana: Schopenhauer la conosce attraverso Frederich Mayer; ammira molto la sapienza orientale, tanto da metterne il sapore nelle proprie opere: molte espressioni e immagini fanno parte del repertorio indiano. È la filosofia buddhista ad avere grande rilievo in Schopenhauer e specialmente per la tematica del dolore il cui superamento è uno degli assi portanti del pensiero di Siddharta. Ma mentre questi ottimisticamente teorizza come possibile il raggiungimento del nirvana Schopenhauer è pessimista e scettico anche se indica delle vie per attenuare il dolore.
Anche il Parsifal di Wagner ha elementi della filosofia indiana ma coniugati col cristianesimo e il paganesimo germanico in maniera molto ambigua.

Riprende la teoria del Nirvana, che è un mondo dove l’uomo non desidera, che si raggiunge attraverso 3 momenti:
giustizia, che ci porta a considerare la volontà di vivere come un’istanza collettiva e non individuale;
compassione, che ci porta a superare l’eros per amare il prossimo condividendone il dolore, simile appunto al nostro;
ascesi, che è uno stato di castità che ci serve per annullare il desiderio e raggiungere così il nirvana.

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