Buon Lunedì

Buona giornata con la rubrica “I FILM PIU’ BELLI E FAMOSI DELLA STORIA DEL CINEMA”

L’avventura

di Michelangelo Antonioni

drammatico | Italia/Francia (1960)

recensione di Davide De Lucca

Antonioni raccontò di aver rischiato la vita durante le riprese de “L’avventura” tra Panarea e Lisca Bianca: l’utilizzo di un’imbarcazione fatiscente; giorni di sole che si alternavano a violente tempeste e mare moti; provviste ed elettricità che scarseggiavano; la bancarotta della casa di produzione, la Imera; lo sciopero della troupe che abbandonò l’isola lasciando il regista con gli attori e sei o sette membri del cast tecnico; due uomini dispersi in mare per una notte, che riapparvero esausti il giorno dopo. Ma Antonioni finì di girare con la pellicola che gli era rimasta. In Francia trovò nuovi finanziatori. La post-produzione però non fu tanto più semplice: i produttori volevano si chiarisse la sparizione di Anna; a Cannes il film venne accolto da risate, sbadigli ostentati, fischi, qualcuno che gridò “Taglia”, nonostante il premio della giuria; in Italia, immancabilmente, venne bollato come osceno e pornografico con la consueta lungimiranza. Ma allo stesso tempo la critica si rese conto di essere di fronte a qualcosa di nuovo e radicale. Perfino il pubblico – attraverso quei meccanismi inesplicabili che decretano i successi del botteghino – se ne accorse imprevedibilmente. Il resto si trova sui libri di cinema.

Se ne parla, se ne scrive tanto fin da subito. Il film diventa un’opera difficile, da capire e interpretare. Difficile anche da guardare: due ore e venti dove accade poco o niente. Disturba perché tocca nervi scoperti, e allora si cerca di definire quello che sfugge, che è nuovo, diverso e spiazzante. L’atteggiamento critico, a posteriori, sembra quello dei personaggi della storia: la natura umana cerca una soluzione anche quando pare non esserci. In questo si esemplifica anche il dualismo del film uomo/donna: Claudia, che ha sempre “bisogno di vedere tutto chiaro”, e Sandro che invece accetta il mistero senza risposta. La sensibile razionalità della donna che viene ferita, e l’acrobazia senza rete dell’aridità dell’uomo che ferisce. “Perché?” è una delle domande più ricorrenti poste dalle donne del film.

La prima etichetta critica è l’alienazione, l’incomunicabilità delle persone impegnate a soddisfare gli istinti più immediati, la “malattia dei sentimenti”. Si riconosce la rivoluzione del linguaggio cinematografico e narrativo, la forza delle digressioni, l’insistenza della dedrammatizzazione e dei tempi morti, la formula del “giallo alla rovescia” (un mistero irrisolto, che non si sa se sia accaduto, di cui a un certo punto del film non ci si preoccupa neanche più). Antonioni diventa il regista complesso, intellettuale, quello da citare, l’artista “non per tutti” – come annunciava il trailer. E dall’altro verso, noioso, lungo, avvolto da quell’antipatia istintiva, infondata e gratuita che si riserva agli autori che fanno scuola. Inutile nascondere che, sì, magari “L’avventura” è effettivamente ostico. Ma allora perché continuare a parlarne e a scriverne? Non solo perché ha contribuito con altre opere al cambiamento del cinema contemporaneo, per l’alto spessore dei contenuti e per il fascino della composizione delle immagini. Ma perché nasconde altro: dietro quelle lunghe scene che non finiscono, dietro quell’indugiare sui paesaggi (pare che Ferzetti, una volta letta la sceneggiatura, avesse scherzato chiedendo se il film fosse stato commissionato dall’ente per il turismo siciliano), quel compiacersi della mdp, quella storia che non procede, dietro quei personaggi indolenti, annoiati, indecisi e mediocri, si nasconde qualcosa di (orribilmente – viene da dire) reale e attuale: Antonioni parla dell’uomo e della donna e dice non tanto che non comunicano più, ma che i sentimenti sono scomparsi. Scomparsi come Anna. E per quanto proviamo a cercarli non li troveremo più. Forse. Forse perché in quel finale, in quella mano di Claudia che si posa sulla spalla di Sandro (colpevole in quel momento di un tradimento, che è nuovamente atto reiterato di incapacità ad amare) c’è una traccia di perdono, di assoluzione, una lontana, criptica speranza. Due ore e venti di vuoto, che fanno male, che disturbano ancora di più nel momento in cui capiamo che la cosa ci riguarda ancora.

Per quanto il trailer del mercato italiano (impregnato di maldestro lirismo) presentasse il film come un prodotto adatto al “più raffinato e intelligente pubblico” (“non è un film per tutti, è un film per pochi”), quello internazionale raccontava di personaggi della moderna società europea che cercano un riempitivo fisico e spirituale alle loro vite in un viaggio dentro le passioni. Entrambi ne evidenziavano comunque la componente erotica.

Il sesso è un tema ricorrente dall’inizio, quasi un tarlo che muove i personaggi – soprattutto maschili. In questa prospettiva le donne diventano oggetti, intercambiabili, osservate ripetutamente dagli uomini come prede, rara avis che radunano folle; spesso mostrate di spalle, accostate ai paesaggi (“Nessun paesaggio è bello come una donna” dice il giovane pittore secondo cui le donne hanno una disposizione naturale a mostrarsi); ma i paesaggi che mostra Antonioni sono spesso vuoti e desolati, come vuoto e insignificante è l’eros che nasce dal desiderio. Il sesso viene fatto per noia, in mancanza di meglio, è malato (malattia dei sentimenti, appunto) perché nasce da un impulso avulso dal sentimento, un esercizio di potere superficiale, fatto anche in cambio di “piccoli ricordi” perché per la borghesia potere significa denaro e viceversa; un sesso come surrogato alla comunicazione, una facile via di fuga quando “tutto sta diventando maledettamente facile, perfino privarsi di un dolore” (un’assonanza con “Tenera è la notte”, uno dei due libri trovati tra gli effetti personali di Anna – l’altro è la Bibbia – dove Fitzgerald scrive “A volte è più difficile privarsi di un dolore che di un piacere”).

Allora l’accusa di pornografia che accomuna Antonioni ad altri registi dell’epoca. Inutile divagare sull’ottusità censoria e forcaiola del catto-perbenismo italico degli anni sessanta. Accusa ovviamente ridicola, ma su cui riflettere. Basta stabilire cosa sia pornografico. L’accezione usata all’uscita del film fu riservata ai pruriti che si tolgono i personaggi. Ma se per pornografico intendiamo la superficialità, il mostrare il sesso come esercizio vuoto, svolto in una camera sterile impermeabile ai sentimenti, dove nessuno prova nulla, un sesso che se da un lato attrae, dall’altro si mostra vuoto, e quel vuoto comporta dolore, allora sì, se pornografico è questo, “L’avventura” e tutto il cinema di Antonioni è messa in scena di pornografie, pornografie dei sentimenti. Alienazione, malattia dell’anima: dolorosa alienante pornografia dell’anima.


Le donne, per quanto viste come trofei, sembrano le sole a salvarsi dall’aridità del sentire maschile, ad alzarsi sopra la mediocrità. Si pongono domande, vogliono chiarimenti, si logorano in tormenti inesplicabili. Anna (Lea Massari), che vorrebbe qualcosa in più del matrimonio, che sembra incapace ad adattarsi alla società e alle convenzioni dell’epoca, e quindi scompare, come fosse implosa, non collocabile nel suo tempo e nel suo spazio. Claudia (Monica Vitti, all’epoca compagna dello stesso Antonioni) sembra il solo personaggio a salvarsi dal totale naufragio dei sentimenti, ad avere ancora rimorsi e sensi di colpa; proviene da una famiglia povera, ed è quella con più valori, che potrebbe risparmiarsi dalla monotonia dell’atarassia borghese prima di conoscere Sandro. E infine Sandro (Gabriele Ferzetti), figlio del miracolo economico, frustrato e incapace di bilanciare amore e lavoro, vivendo di velleità artistiche represse, è modello di mediocrità di tutti gli uomini del film, annoiati e apatici quanto lui, e trascina le donne oltre il confine della sofferenza.
Nessuna coppia sembra salvarsi, uomo e donna vivono insanabili e infelici inferni relazionali. Si sopportano, si odiano, si tradiscono, fino a sfaldarsi e scomparire (come sarà poi l’estremizzazione del finale de “L’eclisse”). “L’avventura” si compone di contraddizioni: sull’amore tra persone che non si amano, sull’amicizia tra persone che non si capiscono e non si rispettano, su una sparizione senza esito e su domande senza risposta. La morale della società si è disfatta, rarefatta (di nuovo, come la sparizione di Anna), e la critica di Antonioni non riguarda tanto la necessità di un ritorno a valori antichi, quanto la nostra incapacità ad adeguarci a quelli attuali, al patetico tentativo di rimanere radicati a codici morali ormai obsoleti, che generano la frustrazione e lo stallo dei tempi moderni. A un livello macrocosmico.
Nel microcosmo Italia, Antonioni è una voce critica sulla borghesia come altri registi. Non solo il contraltare della fantasia felliniana, da un lato, e le commedie dall’altro, ma anche Pasolini. Quasi contemporaneamente, infatti, Pasolini e Antonioni sembrano partire da uno stesso punto e andare in direzioni opposte di uno stesso spettro: Pasolini si cala nelle periferie a raccontare come muore il sottoproletariato, mentre Antonioni sale nei salotti a mostrare come vive l’alta borghesia; in Pasolini c’è l’azione di chi lotta per sopravvivere, in Antonioni la noia dell’inerzia; in Pasolini c’è la morte per amore, in Antonioni la morte dell’amore.


La morte dell’amore, la scomparsa dei sentimenti, il sesso vuoto e l’incapacità di comunicare: ci vuole una lunga allegoria, lunga almeno due ore e venti, di uomini e donne messi in fila negli spazi desolati delle loro anime, perché poi rimangano quei due su una panchina all’alba. A ferirsi, a piangere, a perdonarsi, a soffrire, a non capirsi. Di nuovo. Prima della prossima sterile avventura.

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