“C’ERA UNA VOLTA” un racconto di Matilde Maisto
L’odore del fieno appena falciato era nell’aria, covoni di grano bene ammonticchiati erano sparsi qua e là, il giorno successivo sarebbe arrivata la trebbiatrice e una gran folla avrebbe raggiunto la fattoria: agricoltori, operai, aiutanti, familiari, bambini che si rincorrevano festanti.
Era stato così anche l’anno precedente, Rosy lo ricordava bene. Quella della trebbiatura era la giornata più bella dell’anno per i contadini della zona. Si lavorava alacremente, sotto i cocenti raggi del sole del mese di giugno; la trebbiatrice macinava covoni e covoni di grano, suddividendo i chicchi dalla paglia; c’era un pulviscolo che entrava in ogni poro; il lavoro era duro, ma tutti si sentivano allegri, lavoravano cantando… -Dai Peppe, raccontaci di quella volta che Mariotto ti ha fatto scappare con le brache in mano, perché ti sorprese con la figlia nel fienile – Dai Gigì, cantami quella bella canzone che dice così: “Oj Stella Stè, ch’aspiette nu signale,’o ggrano ammaturato è culor d’oro: E ‘sti capille tuoie so’ tale e quale!…E ‘o ssai ca me ne moro, si mmiez”o ggrano nun m”e ffaie vasà!”.
Questa canzone è troppo importante per me: l’anno scorso in mezzo al grano è nata Nanninella…
Il lavoro, incessante, diventava meno faticoso in questo modo e tutti sembravano sereni e contentissimi. E, intanto, donna Carmela, la padrona della fattoria, faceva cuocere pentoloni di fagioli da mischiare con la pasta e sgozzava oche e galline da mettere in forno.
Si sentiva anche un odore di pane appena sfornato, che veniva voglia di mangiarlo caldo caldo. Di sera, quando tutto il lavoro era completato e la trebbiatrice si fermava, tutti prendevano respiro, andavano a lavarsi al pozzo lì vicino e si mettevano a tavola per gustare la cena di donna Carmela.
Un buon bicchiere di vino della vigna di Mariotto non mancava mai e poi nel silenzio della sera, tra le lucciole e le stelle, si sentiva un’allegra fisarmonica che intonava musiche ballabili: mazurche, polke, valzer, quadriglie… -Avanti – diceva mio padre – formate una fila di donne ed una di uomini e ogni cavaliere s’inchini alla sua dama, poi fate la giravolta, fatela un’altra volta…Un, due e tre… Tenete il tempo, ragazzi mi raccomando.
– Come per incanto, la stanchezza scompariva in ogni persona e tutti erano su di giri, felici. Poi, ad una certa ora, mio fratello Micuccio (ovvero Domenico) prendeva la sua tromba e suonava “Il silenzio”… Era giunto il momento di andare a dormire, perché l’indomani sarebbe stata un’altra giornata di dura fatica.
La trebbiatrice all’alba si sarebbe mossa per andare nella fattoria accanto alla nostra e così di seguito in tutta la zona. Oggi la tecnologia ha nettamente annientato quel momento attesissimo e magico della vita di campagna; le macchine fanno il lavoro degli uomini e per i campi non si sentono più risate e canti. Mi piacerebbe tanto rivivere quelle caotiche giornate e rincorrere le lucciole nei prati, ma oggi tutto è meccanizzato. Nel nostro secolo vi è proprio una mentalità tecnologica; ogni attività si svolge in funzione della parola “migliorare”.
Si parla continuamente di migliorare le condizioni di vita… ma sempre più spesso si ripete il detto “Stavamo meglio quando stavamo peggio”!
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