Così Boccaccio ci insegna come vivere in quarantena

Dal «Decamerone» ai «Promessi sposi» i classici ci mostrano come il presente sia simile al passato

Ex malo bonum: la famosa epidemia fa male all’economia, oltre che alla salute dei contagiati, ma fa bene alla letteratura. Sia perché quarantene e chiusure di locali favoriscono l’apertura di qualche libro in più, sia perché ci ribadisce la sempiterna attualità di Manzoni e Boccaccio.

Tornano buoni i ricordi scolastici e risuscita la parola untore mentre i più volenterosi non si accontentano delle citazioni, riprendono in mano i Promessi sposi e riscoprono il significato di classico: «Un autore che resiste al tempo e genera influenze» (definizione del poeta Giuseppe Conte). L’ho fatto anch’io, mi sono goduto i capitoli XXXI e XXXII, i più centrati sulla peste, e ho sentito il respiro della grande letteratura. Secondo Gómez-Dávila «appartengono alla letteratura tutti i libri che si possono leggere due volte»: con Manzoni le riletture potrebbero diventare duemila e sempre se ne ricaverebbe qualcosa di nuovo, di utile e di bello. È contenuta proprio in queste pagine una delle frasi preferite da noi che non idolatriamo la democrazia, parole valide nelle emergenze di ogni epoca: «Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune». E il Boccaccio? Il Decamerone viene letto molto meno innanzitutto perché molto meno leggibile. Ma se la prosa del Trecento è lontana dall’italiano di oggi, la psiche del Trecento ci è vicinissima: sette secoli passati invano, da vari punti di vista. Io posso dirlo perché, sopravvivendo a periodi lunghissimi, facendomi largo nel groviglio di subordinate, il Boccaccio pestilenziale me lo sono riletto l’altra notte e ci ho trovato l’Italia del Coronavirus, a volte tale e quale.

«Non valendo alcun senno né umano provvedimento». Contro la peste nera del 1348 il povero Gonfaloniere di Giustizia del Comune di Firenze certamente si prodigò: come il povero Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, poco o nulla risolse. «Purgata la città da oficiali sopra ciò ordinati, e vietato l’entrarvi dentro a ciascuno infermo». Come oggi a Codogno e Vo’ Euganeo, anche a Firenze adottarono quarantene e posti di blocco: c’è solo da sperare che i risultati siano migliori. «A cura delle quali infermità né consiglio di medico, né virtù di medicina alcuna, pareva che valesse o facesse profitto». In 7 secoli la medicina ha fatto passi da gigante: tranne che nel campo degli antivirali, verrebbe da dire.

«E tutti quasi, ad un fine tiravano assai crudele: ciò era di schifare e di fuggire gl’infermi e le lor cose». Di fronte al pericolo del contagio siamo ancora più crudeli (o più scemi) di allora: in certi posti (vedi Ischia) vengono schifate categorie di cittadini in perfetta salute, basta che provengano da Nord.

«Altri affermavano il bere assai e il godere, e l’andar cantando attorno e sollazzando, e il sodisfare d’ogni cosa allo appetito che si potesse, e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi, esser medicina certissima a tanto male». Il bere assai era la consolazione dei fiorentini del ‘300 e dei monatti del ‘600 e continua a esserla: Maurizio Milani mi scrive dalla sua Codogno paventando l’esaurimento delle scorte di Gutturnio mentre dai bar dei Colli Euganei giungono immagini di gagliardi avventori che combattono il virus a spritz.

«Andavano attorno, portando nelle mani chi fiori, chi erbe odorifere, e chi diverse maniere di spezierie, quella al naso ponendosi spesso». Oggi invece ci sono le mascherine: peccato che quelle chirurgiche di garza azzurrina, le più comuni, siano efficaci contro i batteri e il coronavirus sia per l’appunto un virus. Illusione per illusione, al tempo del Boccaccio erano più poetici (oltre che, più erotici). «Assai e uomini e donne abbandonarono la propria città, le proprie case, i lor luoghi e i lor parenti e le lor cose, e cercarono l’altrui o almeno il lor contado». Nei giorni scorsi è stato rilevato un fenomeno curioso, il frettoloso ritorno al Sud, a cercare «il lor contado», di tanti giovani meridionali iscritti alle università del Nord: come se il morbo fosse un’esclusiva padana e i confini dell’antico Regno delle Due Sicilie (il fiume Tronto, le coste sicule…) fossero invalicabili ai microrganismi.

«Né altra cosa alcuna ci udiamo, se non: I cotali sono morti, e Gli altrettali sono per morire». Oggi è uguale, da giorni su qualunque schermo mi cada lo sguardo la prima cosa che vedo è il numero dei morti e dei contagiati. Ansa come ansia, un lugubre stillicidio, un bollettino di guerra. «Vogliamo e comandiamo che niuna novella, altro che lieta, ci rechi di fuori». La qui virgolettata volontà di Pampinea, una delle sette giovani donne che si alternano ai tre uomini nella narrazione boccacciana, vorrei che fosse legge anche oggi, anche qui. Anch’io d’ora in poi voglio sentire soltanto buone notizie, o almeno leggere soltanto buoni libri. Come i nostri insuperabili classici.

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