E’ PRIMAVERA…..

     Benvenuta primavera

Ecco arrivare la Primavera,
sbocciano i fiori, ridono i mari
i venti cantano a festa.

E’ benvenuta la Primavera.

Sui monti nasce l’erbetta
di mattina il sole sorgerà,
e tutti gli animali sveglierà.

La Primavera è arrivata all’improvviso
e sull’ albero spunta un nido,
i pulcini pigolano.


Un bimbo sorride felice
ed il cuore allegro sospira leggero
(Anonimo)

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Le stagioni passano, si susseguono, si rincorrono, ma quasi non ce ne accorgiamo. Prigionieri della fretta, soffocati da ritmi di vita troppo convulsi e poco umani, schiavi di un sistema che ha ormai travolto le nostre esistenze e che a volte arriviamo persino a giustificare, immersi nel grigio squallido della vita cittadina, fatta di caos e di odori molesti, perdiamo gli spettacoli più belli della natura.
Perdiamo la bellezza della primavera, la magia dei suoi colori semplici e modesti, ma vivi e brillanti; perdiamo la serena compostezza di un prato macchiato di bianco.
Ignoriamo la vastità dei prati che si perdono all’orizzonte, e il cielo terso a salutare il mattino.

RICORDIAMO TUTTI CHE COS’E’ LA PRIMAVERA….

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TUTTAVIA OGGI NON SEMBRA IL PRIMO GIORNO DI PRIMAVERA,  INFATTI:

di G. Consolaro

Il temporale

Che succede? Or è un momento,
calma e gaia era la terra;
e di colpo… pioggia, vento,
lampi e tuoni in ciel fan guerra…
Son scomparsi gli uccellini,
treman l’erbe e i fiorellini,
e le piante… ho, che pietà,
par si spezzino a metà!

di M. Maggini

Il sorgere del sole

Ormai le stelle sono impallidite e ad una scomparse
La campagna si ridesta col cinguettìo degli uccelli
che aspettano il primo raggio di sole.
Ed il sole ritorna. Dapprima è un crescendo
di luce in un punto, sulla cresta della collina,
dove i veli e le nuvolette si fanno d’oro splendente,
poi la luce trabocca in un getto di raggi
che si slanciano su nel cielo e inondano la terra,
finché il disco ardente si affaccia e sale con
lentezza maestosa e riprende il suo cammino nel
cielo.

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di Giovanni Pascoli

L’orto

E come l’amo il mio cantuccio d’orto,
col suo radicchio che convien ch’io tagli
via via; che appena morto, ecco è risorto:
o primavera! con quel verde d’agli,
coi papaveri rossi, la cui testa
suona coi chicchi, simile a sonagli;
con le cipolle di cui fo la resta
per San Giovanni; con lo spigo buono,
che sa di bianco e rende odor di festa;
coi ricciutelli cavoli, che sono
neri, ma buoni; e quelle mie viole
gialle, ch’hanno un odore… come il suono
dei vespri, dopo mezzogiorno, al sole
nuovo d’aprile; ed alto, co’ suoi capi
rotondi, d’oro, il grande girasole
ch’è sempre pieno nel ronzio dell’api!


RACCONTO DI PRIMAVERA

di Lev Tolstoy

Piccola storia di una nidiata

isabella

Un giorno, nell’aprire le imposte, ci accorgemmo che c’era un nido appena cominciato. lo volevo prenderlo e portarlo dentro per giocare, ma Elisa, la mia sorellina maggiore, ce lo proibì.
Osservammo, senza farci vedere, il lavoro dell’uccellino che portava ora una pagliuzza ora una piuma. Quando ebbe finito, scoprimmo che vi aveva deposto cinque uova e noi fummo assai contenti. Non giungeva più a volo, adesso. Restava invece coricato sulle uova.
Un altro uccello gli portava piccoli vermi e lo nutriva.
In capo a due giorni, udimmo stridere dietro l’imposta. Noi ci affacciammo a guardare ed ecco nel nido muoversi cinque uccellini, tutti nudi e senz’ali; i loro becchi erano gialli e molli, le loro teste erano troppo grosse. Come ci parevano buffi! Di quando in quando s’andava a vedere quello che facevano.
La madre volava via e quando tornava, distribuiva loro pezzetti di vermi. Dopo una settimana, si erano fatti piu grossi e una lanugine li rivestiva. Ci parvero assai più graziosi.
Una mattina trovammo la madre stesa morta sul davanzale.
Forse, posata là per passarvi la notte, s’era addormentata. Quando l’imposta era stata chiusa, questa, forse, l’aveva schiacciata.
La prendemmo e la ponemmo sull’erba.
I piccoli intanto pigolavano, tendevano i capini, aprivano il becco: ma nessuno piu dava loro l’imbeccata. Elisa, ci disse:
Non c’è più nessuno che dia loro da mangiare: volete che li nutriamo noi?
Felicissimi della proposta, riempimmo un panierino d’ovatta, vi ponemmo delicatamente il nido con tutti i piccoli e lo portammo con noi in una camera alta della casa. Poi, intrisa una mollica di pane nel latte, facemmo palline, e cominciammo a nutrire gli uccellini. Questi gustavano assai il nostro cibo.
Dopo aver mangiato scotevano il capino, nettavano il becco alle pareti del paniere e si mostravano molto allegri. Tutta la giornata seguitammo ad imbeccarli ed eravamo tutti rapiti d’ammirazione.
L’indomani mattina il nostro primo pensiero fu il nido. Corremmo al paniere per ritrovare i nostri uccellini, ma, ahimè, il piu piccolo era steso morto con le sue zampine impigliate nell’ovatta. Noi pensammo subito che forse l’ovatta l’avesse fatto morire e subito la togliemmo tutta per la paura che un altro vi si impigliasse con le zampette: in luogo di ovatta tappezzammo il paniere con tenere erbe e col muschio
odoroso. Ma verso sera due altri drizzavano le loro piume, aprivano i becchi e, chiudendo gli occhi, morivano. Due giorni dopo anche il quarto, senza che noi comprendessimo il motivo, fece altrettanto.
Ne restava uno solo.
Ci fu detto che avevamo dato loro troppo da mangiare, così ancora piu forte divenne il nostro dolore, perché eravamo stati noi, senza volerlo, a far morire la nidiata. Elisa ci sgridò e pianse,
poi decise di curar da sola l’uccellino rimasto: noi ci accontentammo di guardare. Il piccolo era tanto vispo, sano e allegro e vivace! Lo chiamavamo « Pitin ».
Quando mia sorella chiamava « Pitin! Pitin », esso, che incominciava un poco a volare, le veniva sulla spalla, sulla testa, sulla mano, ed ella gli dava da mangiare senza guardarlo.
Poi crebbe ed imparò a mangiare da sé. Viveva sempre con noi nella nostra camera. Qualche volta volava via dal balcone ma per tornare dopo un po’ nel panierino e passarvi la notte.
Un mattino non volle piu uscire dal paniere: le sue penne parevano tutte bagnate, ed egli le drizzava a stento. Ecco, mi fa come gli altri! – disse Elisa tutta commossa. Ella non lo abbanddnava piu; si occupava continuamente di lui. Ma Pitin non voleva piu né mangiare né bere e dopo tre giorni morì.
Quando noi vedemmo che era proprio morto, disteso nel fondo con le zampine rattappite, cominciammo a piangere cosi forte che la mamma sali in fretta per vedere che cosa era successo. Quando entrò vide sul tavolo il passero morto e capì il nostro dolore. Per alcuni giorni Elisa non volle mangiare e neppur giocare: non faceva altro che piangere.
Avvolgemmo Pitin con un ritaglio di stoffa, la migliore che potevamo avere. Poi, depostolo in una scatoletta di legno, lo seppellimmo in un angolo del giardino. Elisa cercò alcune pietre, le pose una sull’altra come un piccolo monumento, il piccolo monumento a Pitin. Intorno formammo un’aiola, cinta di erbetta. E queste ultime occupazioni, intorno all’uccellino morto,
consolarono un poco Lisetta e noi

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