Il Covid ha spento la voce di un poeta

   La voce di un poeta si è spenta. Per colpa del Covid, che sta flagellando il mondo. Gli appassionati non potranno più ascoltare i versi di Nicola De Comite, già operaio dell’Enel, da lui recitati con semplicità in “Memorie Tarantine” o in “Taranto com’era”, gruppi molto seguiti su facebook. Lo ascoltavo anch’io, puntualmente. Appena lo vedevo comparire con i suoi baffi folti, bianchi, ben curati, e i suoi capelli ondulati e argentati gli davo tutta la mia attenzione. Ho sentito l’ultima sua poesia in un video realizzato in occasione della giornata del dialetto. Non solo di quello della Bimare, ma di tutti, dal napoletano, noto in tutto il mondo, dal barese al friulano, al siciliano. Scriveva versi emozionanti, a volte struggenti, Niccola De Comite, con una passione profonda, autentica per la sua città e l’orgoglio di appartenerle. Ho ancora nelle orecchie “La torre dell’orologio” di piazza Fontana, in cui il contatempo che sta lì in alto come su un trono gli confida la sua pena per essere stato privato delle campane; per il restauro della fontana, che a suo dire è malfatto, anche se realizzato da un artista di portata nazionale, Nicola Carrino (partecipò anche a qualche Biennale di Venezia), avendo voluto tra l’altro un bel giardino con alberi e fiori tutt’intorno agli zampilli d’acqua. Altro lamento per gli anni in cui è stato trascurato: non dal poeta Diego Marturano – da tanto scomparso – che gli aveva dedicato una poesia toccante, coinvolgente: “’U relògge d’a chiàzze”.

  Nicola De Comite aveva sempre l’occhio vigile verso i cambiamenti “d’a nàche”, la sua culla: ai pezzi perduti o stravolti, a quelli ignorati. Rileggo o riascolto alcune sue opere nei momenti più sereni per apprezzare meglio i suoni della parlata della terra amata, che, come diceva lui, “rumànene ssèmbe indr’a le vène”. Lo sa chi dovette prendere il treno della speranza per trasferirsi altrove e non ha la possibilità di esprimersi nella parlata dell’anima. E anche al cecchino che gli ha tolto la vita “e ha messo in ginocchio i popoli del mondo intero e sta mietendo ancora vittime”, aveva riservato altri suoi versi.

   E’ brutale, vile, questo Covid, che non si arrende, scriveva Nicola, in vernacolo. Ricordo un’altra sua poesia per il padre, “Cicce ‘u bregatière”, uomo d’altra epoca, “tutte càse e fatje, e me decève ssèmbe a ‘sta vìte nesciune te riàle nìende”: con il sudore della fronte si acquista un piatto di minestra; e “Cicce ‘u bregatière” di camicie ne aveva sudate tante e camminava fiero, la schiena dritta e la testa alta. Faticava anche di notte, come pescatore, per portare il pane alla famiglia. Era per Nicola un esempio, un modello da imitare.

   De Comite si esprimeva con delicatezza: della sua città; dei suoi mari legati dal canale navigabile; del borgo antico (la via di mezzo, la chiesa di San Domenico, il ponte di pietra e quello di ferro; e delle figure caratteristiche, tra cui Marche Poll, l’ometto basso e magro, volto pieno di rughe profonde, che andando in giro per la città con le scarpe sfondate vendeva “‘U Panarjìdde” (“quidde piccine ca no làsse de pède a nesciùne”: sottotitolo), giornale satirico fondato nel 1902 da Vincenzo Leggeri, dialettologo e tipografo, nato ad Altamura nel 1873 e morto a Taranto nel ‘24, lasciando il periodico ai figli. Qualche notizia sulle “panarìjdde”?  La fornisce lo stesso De Comite. Tantissimi anni fa erano ragazzi che vivevano praticamente per strada e per riuscire a racimolare qualche soldo e un pezzo di pane andavano per i mercati con il paniere e aiutavano gli avventori a portare il peso della spesa; e per aggiudicarsi i clienti facevano chiasso e spesso venivano alle mani, quindi erano ritenuti pericolosi. In tempi successivi – aggiunge – veniva attribuito questo titolo a “tutti i ragazzi che giocavano in strada, ma questi non avevano niente a che fare con i loro predecessori”. “’U Panarjìdde aveva dunque in Marche Poll un insostituibile strillone. “Na, accattète ‘U panarìjdde; a vuè ‘a schedìne?” (che era quella del Totocalcio). Nessuno nella Bimare ha dimenticato quelle parole né la figura di Amedeo Orlolla, il vero nome del personaggio che proponeva quell’organo mille volte al giorno, dalla mattina alla sera, a volte spingendosi fino a Statte e a Crispiano, a piedi o con qualche passaggio offerto da automobilisti generosi.

   In una poesia De Comite descrive “’na pòste de perdùne: “scazàte sus’a nnà frèdda chiànca/ ammuskàte, pàsse lijnde nazzecàte/ vestùte cu camesòne viànche/ spàlle cu mazzètta pànna accummieccàte/ mmàne ‘u burdòne cappijdde pellegrine ‘ncape…”. E in un’altra racconta: “Mi domandano il motivo della mia passione per il dialetto, e io colgo l’occasione “pe’ cundà’ ‘nu fàtte”. Eccolo. “Eravamo per le vacanze di Natale a Piancavalle, un luogo di montagna veramente bello; ma con persone diverse da noi, che amiamo le feste, lo stare insieme in allegria, il conversare spassionatamente. Gli autoctoni invece imbacuccati (“accufanàte”) e sempre “cu ‘a càpe sòtte”. “Un giorno notai un signore che stava sempre ai margini della nostra comitiva e alla fine gli domandai il motivo. Era un capitano dell’aviazione, di Taranto, a Pordenone dal ’60”, affascinato dai suoni e dalle armonie, dalle onomatopee del nostro idioma, che era anche il suo”. Il dialetto è una calamita “ca n’auànde e no’nge ne làsse cchiune”, tenendoci legati saldamente alla nostra terra, così ricca di bellezze: i tramonti che catturerebbero la tavolozza di Constable, il lungomare, il Castello Aragonese, il ponte che si apre per il transito delle navi, un evento che attira ogni volta folle di tarantini e di turisti, che applaudono festosamente.

   De Comite era un cultore del dialetto; il dialetto era un suo gioiello; ‘u dialètte jèsse da indr’o core, Necò’”. I suoi video su Facebook s’imponevano. Nicola era chiaro, semplice, davanti al suo leggìo come un sacerdote che legge il Vangelo alla Messa della domenica. “La casa a Taranto vecchia, dove sono nato, è affacciata sulla marina e sono tanti anni che l’ho lasciata, ma il bene che le porto non si esaurisce. Passando ogni tanto da quelle parti guardo con nostalgia quella finestra e mi ricordo quando la mattina con il naso attaccato ai vetri guardavo il sole che accarezzando il mare spandeva luce d’oro e d’argento, regalando a Mar Piccolo un incanto…” (in dialetto suona meglio). Un grande atto d’amore per il borgo antico, i suoi abitanti, “le pescatùre”; “chidde ca vònne mmìjenz’a mmàre cu le le lambàre” soprattutto. E mi viene in mente un poeta di altri tempi, Alfredo Nunziato Majorano (“L’èrva salvàgge e ddò pummedòre appìse hònne cangellàte sècule de stòrie”), dialettologo, demopsicologo, amico di Gerhard Rohlfs, noto anche per la sua Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti; autore di teatro in vernacolo (“A Sànda Mòneche”, “’U fìgghie d’a Madònne”, “A trucculesciàte de fratèlle Spiridione”, “’A Stutàte”, che andò in scena la prima volta sul palcoscenico del Dopolavoro Ferroviario, ottenendo una bella recensione dell’autorevole critico Antonio Rizzo, direttore de “La Voce del Popolo” e in quei giorni incerto se accettare l’invito di critico teatrale fattogli dal “Giornale d’Italia”.

   Nicola De Comite era molto stimato a Taranto. ”In occasione del suo compleanno, il 30 marzo – mi riferisce Carmen Adamo, poetessa, innamorata anche lei del teatro, guida per i turisti che a fiotti vengono a visitare la città, organizzatrice di eventi nei luoghi storici, sfiorando il dialetto – alcuni amici, poeti  legati al gruppo “Memorie Tarantine”, per omaggiarlo avevano postato su Facebook immagini di Taranto com’era,  conferma dell’affetto e della stima che tutti avevano per lui, che con Carmen ed altri aveva partecipato a molti concorsi di poesia, vincendone  tanti tra i più accreditati, come altri del gruppo, compresa Carmen Adamo. Aveva anche pubblicato libri. In dialetto (scriveva anche in lingua).

   Adesso Nicola De Comite è oltre le nuvole. Aveva 64 anni. Lascia tante sue perle, versi, video e foto: piazza Maria Immacolata, una volta intitolata a Giordano Bruno; la marina; la ringhiera; via D’Aquino del tempo in cui aveva un’altra fisionomia”; il ponte girevole attraversato dal tram che dalla stazione ferroviaria andava a Solito, con binario di scambio in via Di Palma, di fronte al cinema Odeon, chiuso da anni, come il Rex, il Paisiello…

   I guai per Taranto non finiscono mai. Adesso la sta falciando il Covid, che ha ucciso anche Rosanna Di Bello, sindaco dal 2000 al 2006, cogliendola nella sala di terapia intensiva dell’ospedale Moscati, dove era stata ricoverata il 24 marzo. La Di Bello era di Forza Italia e Berlusconi diceva di lei che era la più bella. Laureata in Biologia, nel 1993 aveva fondato in Puglia il primo sodalizio della compagine del ”dominus” di centro-destra.

                                                                                                Franco Presicci

Il Covid ha ucciso un poeta

SI E’ SPENTA LA VOCE DI NICOLA DI COMITE

CHE CANTAVA TARANTO E LE SUE BELLEZZE

Per il suo compleanno, il 30 marzo, gli amici

di “Memorie tarantine” avevano postato su

Facebook fotografie della città com’era una

volta, in segno dell’affetto e della stima che

tutti gli tributavano.

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