“La coscienza di Zeno” di Italo Svevo

“Com’era stata più bella la mia vita che non quella dei cosiddetti sani”. Chi può dirsi normale, chi sano? Perché e quale il riverbero esistenziale di questa condizione? La coscienza di Zeno di Italo Svevo è una tra le risposte più originali e importanti della lettertura italiana sulla questione dell’analisi psicologica.

“Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quand’è l’ultima. Anche le altre hanno un loro gusto speciale, ma meno intenso. L’ultima acquista il suo sapore dal sentimento della vittoria su sé stesso e la speranza di un prossimo futuro di forza e di salute”. La coscienza di Zeno sovverte la concezione di cura e malattia. Le teorie freudiane vengono manipolate come strumento per rivelare una natura diversa della condizione patologica. Usando un approccio paradossalmente cattolico, lo psicanalista austriaco trova nel passato il trauma, nel presente la psicanalisi, nel futuro guarigione. Ecco, queste forme sono colmate da nuovi significati, più radenti al rapporto con la singolarità dell’uomo.

Potremmo infatti sostenere che l’utilizzo delle definizioni non è assimilabile alla caratteristiche proprie dell’unicità, condizione che forse più di ogni altra attanaglia la vita umana. Definire è acquisire un dogmatismo, rappresentativo della scienza. E ciò porta alla costituzione di una verità che racchiude un dato ben delineato, la salute.

Alla definizione Svevo oppone la forza descrittiva. Come un calco lascia emergere le imperfezioni, le irregolarità del profilo psicologico individuale. Elementi che dalla lente scientifica possono contrassegnare circostanze anormale. La malattia. E invece no, il proprio limite è da considerarsi un valore, purché divenga coscienza. Il soggetto si appropria di un sé consapevole e scopre nel difetto, pur anche ascrivibile al capitolo scientifico patologico, un nuovo modo di interagire col reale. La scoperta della malattia come dinamismo, nella contraddizione un modo di vivere le infinite sfumature racchiuse in un polo dualistico le cui estremità sono inattingibili.

Nella salute la fissità dell’imperfezione che si autoproclama normalità, conformità alla definizione. Mentre il compendio della malattia diventa ironica parodia, preziosa fragilità. Racchiude, nella sua consapevolezza, una potenza vitale. Compreso il rovesciamento di un paradigma comune, che poi è una maniera diffusa di interpretare il reale ed è quindi a sua volta realtà, possiamo giungere al portato anti-psicanalitico dell’opera. Scelta che anticipa di oltre trent’anni una grande tendenza novecentesca, vittima di un pensiero freudiano degenerato in assillo.

Il romanzo La coscienza di Zeno raffigura un mondo borghese, sotto il cui segno opera il protagonista e vengono espresse le diverse alterità, soprattutto familiari, correlate. Una rete di relazioni che guida la formazione di narrazioni ordinate in composizioni a sé stanti. Spazi della coscienza. Con lo scorrere delle pagine affiora però un’organizzazione chiara. L’opposizione tra il modo di vivere la coscienza alla luce della terapia, e quello della chiave letteraria. “Il mentitore dovrebbe tener presente che, per essere creduto, non bisogna dire che le menzogne necessarie”. Quando la sincerità è solo miraggio scivola la speranza della cura, se ne palesa l’ottusità. Sorge il piacere liberatorio della letteratura, senza la necessità della coerenza di una mira definita. Letteratura che libera la coscienza del bisogno di un miglioramento statico. Letteratura che è vita e quindi legata a un presente a misura d’imprefezione.

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