Le migrazioni e il pregiudizio come rischio clinico

UN WORKSHOP AL POLICLINICO “GEMELLI” DI ROMA SU VULNERABILITA’ E STRESS DA TRAUMA DELLE POPOLAZIONI MIGRANTI

di Tiziana Grassi

ROMA – La società plurale e il pregiudizio come rischio clinico sono stati al centro di un Workshop tematico organizzato dal Centro per la Vulnerabilità e lo Stress da Trauma delle popolazioni migranti e richiedenti Asilo del Policlinico “A. Gemelli” di Roma in collaborazione con il Centro di ricerca “Health Human care and social intercultural Assessments” e il Master di II livello “Politiche migratorie, Human care e Management sostenibile” dell’Università Cattolica del Sacro Cuore “Gemelli”.

Al momento di riflessione sono intervenuti il Prof. Pietro Bria, Responsabile del Progetto dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, il Prof. Emanuele Caroppo, Coordinatore scientifico del Progetto e la Dott.ssa Concetta Mirisola, Direttore Generale dell’INMP, Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e per il contrasto delle malattie della Povertà, afferente al Ministero della Salute. Focus del Workshop, la discussione della tesi di specializzazione del Master universitario della mediatrice culturale Dott.ssa Chiara Cianciulli dal titolo “People on the move: mediazione transculturale e migrazioni forzate” e “Modello monitoraggio salute migranti. Una proposta di Networking” discussa dal Dott. Antonio Ciravolo, a cui è seguita la presentazione dei risultati del Progetto OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) Equi Health di Rosella Celmi. Un’occasione per tematizzare le complesse dinamiche interrelazionali date dalla contemporanea società multiculturale connotata da sempre più densi fenomeni migratori in entrata e in uscita dal nostro Paese, e che necessitano di nuove consapevolezze e amplianti prospettive di approccio. Tra queste, la Medicina transculturale, una medicina di prossimità, che focalizza l’attenzione sulla persona e, in una dimensione antropocentrica, ne affronta il vissuto migratorio attraversando identità plurime, problemi legati agli ibridismi culturali nell’eterna sospensione tra due mondi e forme di disagio insite in ogni processo migratorio, tra spaesamento-sradicamento, resilienza, solitudine e senso di perdita nell’altrove.

L’esperienza migratoria, ieri come oggi, comporta infatti nell’individuo un senso di vuoto, di lacerazione e rottura nel continuum esistenziale – spesso un avvenimento di portata catastrofica che marca indelebilmente un ‘prima’ e un ‘dopo’ nell’esistenza – che gli studiosi hanno definito “lutto migratorio”. Aspetti che riconducono al concetto di vulnerabilità esperenziale del migrante e a cui la branca psichiatrica della medicina oggi pone la massima attenzione per la necessità di una presa in carico multidimensionale della persona, di una valutazione olistica dell’individuo “in transito” – psichicamente e geograficamente -, tra contesti di partenza e di arrivo. Premesso che “l’art. 32 della Costituzione italiana ci ricorda che tutelare la salute è un diritto fondamentale dell’individuo – ha osservato il Direttore Generale dell’INMP Mirisola – oggi che l’immigrazione è diventata un fenomeno strutturale del nostro Paese, altrettanto strutturale deve essere la risposta, consapevoli che i problemi di salute della popolazione immigrata possono essere concettualmente classificati in tre grandi categorie: di ‘importazione’, di ‘sradicamento’ e di ‘acculturazione’. I problemi di importazione derivano dalle caratteristiche genetiche o dalle condizioni di vita nel Paese di origine. I problemi di sradicamento sono invece generati dall’esperienza migratoria, in particolare tra coloro che sono stati costretti a una migrazione forzata, come nel caso dei richiedenti protezione internazionale, e si manifestano principalmente come disturbi della sfera psichica. Il processo di acculturazione influisce sullo stato di salute soprattutto attraverso il cambiamento degli stili di vita degli immigrati che progressivamente tendono ad assumere quelli della popolazione del Paese ospite”. Sullo stato di salute dei migranti, la dottoressa Mirisola ha inoltre focalizzato che, in generale, il migrante arriva sul nostro territorio in buone condizioni di salute, si tratta del cosiddetto ‘effetto migrante sano’, una sorta di selezione naturale all’origine, per cui emigra soprattutto chi è giovane e in buone condizioni di salute, poiché il viaggio è lungo, difficile, a volte costoso e viene realizzato in condizioni di elevata precarietà. A conferma di ciò, vi è il dato sanitario relativo alla bassa prevalenza delle patologie infettive di importazione, i cui rischi di trasmissione alla popolazione ospite rimangono peraltro trascurabili. Tuttavia, con il passare del tempo, gli immigrati tendono a perdere tale vantaggio e il loro profilo di salute si approssima a quello della popolazione ospite o diventa addirittura peggiore, a causa dell’esposizione a peggiori condizioni di vita e di lavoro e delle disuguaglianze emergenti nell’accesso ai servizi: è il cosiddetto ‘effetto migrante esausto’. L’acculturazione può, tuttavia, determinare anche effetti positivi, ad esempio generando una maggiore partecipazione ai programmi di screening per l’anticipazione diagnostica”.

L’INMP, tra i soggetti istituzionali che hanno partecipato al Workshop tematico, è centro di riferimento nazionale per l’assistenza socio-sanitaria alle popolazioni migranti e alle fragilità sociali, nonché centro nazionale per la mediazione transculturale in campo sanitario. In questa mission, si avvale di una struttura sanitaria poli-specialistica, in cui opera uno staff multidisciplinare di medici, psicologi, infermieri, mediatori transculturali e antropologi formati ad hoc per l’attività di accoglienza e di facilitazione all’accesso al Servizio Sanitario Nazionale. Una dimensione, quella della mediazione transculturale in una società che vede moltiplicarsi le geografie dell’umano, nevralgica, come ha evidenziato nella sua smagliante discussione di laurea la mediatrice culturale Cianciulli: “La prospettiva transculturale è un modello di analisi della realtà moderna, un ideale a cui tendere nella prassi quotidiana di interazione culturale perchè non si pone su un unico polo, ma attraversa le culture, nella contaminazione di scambi, incontri e ibridismi. E’ un approccio trasformativo, orientato al cambiamento, basato su una visione essenzialmente socio-comunicativa del conflitto umano, dove il conflitto è occasione di crescita morale e personale. La mediazione è dunque un processo attivo e dinamico, delineandosi come un lavoro di decodifica della comunicazione che si articola su tre livelli: pratico-orientativo, linguistico-comunicativo dove il mediatore deve entrare per un istante nell’immaginazione culturale dell’Altro e deve permettere alle due culture di incontrarsi creando un contesto comunicativo che faciliti la comprensione dei messaggi, anche non verbali. Tutto ciò, dimostrandosi imparziale, empatico ed evitando giudizi di valore o forme di censura che possano generare incompatibilità; l’altro livello è quello psico-sociale, dove la mediazione transculturale diviene agente di cambiamento e il mediatore rappresenta la possibilità di realizzare questo passaggio senza distruggere la stabilità psicologica del soggetto straniero verso un’uguaglianza emancipante, che è il fine di ogni percorso migratorio”.

Una figura professionale, quella del Mediatore transculturale, che in Italia vive il grande paradosso di essere, da una parte, in attesa di un pieno riconoscimento giuridico nel mondo del lavoro (e a questo proposito va citata la valenza del Progetto FOR-ME, finanziato dal FEI Fondo Europeo per l’integrazione di cittadini di Paesi terzi, proposto dal Ministero dell’Interno e attuato in partenariato dal Ministero della Salute e INMP, e che ha l’obiettivo di contribuire a migliorare qualitativamente l’assistenza socio-sanitaria resa alla popolazione straniera, con particolare riferimento ai cittadini dei Paesi Terzi, nel rispetto del principio di garanzia del diritto alla salute e di un’appropriata erogazione dei livelli essenziali di assistenza sul territorio nazionale), mentre rivela tutta la sua nevralgica rilevanza nell’urgenza di dialogo, confronto e conoscenza dell’Altro, partendo da quegli “altri” che vivono insieme a noi e che contribuiscono a ri-disegnare i nuovi paesaggi dell’Italia multietnica e plurale, in un tempo pieno di incognite, contraccolpi e contraddizioni. Un tempo in cui gran parte delle categorie che ci ha lasciato in eredità il Novecento si rivelano inadeguate a spiegare e comprendere il presente, verso nuove, più mature e inclusive filosofie dell’alterità.

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