Letteratitudini mette a confronto i tre grandi del 1700: Alfieri, Parini e Goldoni a confronto

La vita, le opere e il pensiero dei tre scrittori italiani del 1700: Vittorio Alfieri, Giuseppe Parini e Carlo Goldoni (e riassunto della Locandiera) a confronto (6 pagine formato doc)

ALFIERI PARINI E GOLDONI

I tre grandi del 1700. Una nuova corrente culturale stava nascendo in questo periodo: l’Illuminismo; si opponeva all’oscurantismo medievale (ovvero un sistema basato sui pregiudizi che si opponeva al progresso); in poco tempo dilagò in tutta Europa ed anche oltreoceano.
Le nuove idee vennero divulgate attraverso periodici, come lo Spectator a Londra, simile al Caffè, e i giornali, come il Times che aveva un taglio politico.
Anche la forma orale era utilissima: il teatro era il luogo per eccellenza, facile da comprendere da parte di un’ampia porzione della popolazione.
In questo periodo, regnava un modello che risaliva a più di duemila anni or sono, la commedia dell’arte, ideata dai Greci.
Utilizzava un canovaccio, ossia una traccia che gli attori dovevano seguire, ma per il resto possedevano la piena libertà d’improvvisare.

GOLDONI PARINI ALFIERI DIFFERENZE NEL LORO PENSIERO E COME IN COMUNE

Dato che le donne non erano ammesse, sul palcoscenico gli uomini indossavano delle maschere.
Ultimamente la situazione andava degenerando, le storie erano quasi sempre le stesse, i personaggi recitavano sempre le stesse battute, quindi tutto era ripetitivo e noioso; peggiorò ancor di più quando, per attirare il pubblico, arrivò ad utilizzare termini volgari.
C’era bisogno di una riforma e Carlo Goldoni la fece, diede vita alla commedia di carattere (o commedia d’ambiente).
Introduceva grandi cambiamenti, come la sostituzione del canovaccio con il copione che obbligava gli attori a seguire il testo scritto dall’autore, limitando la loro inventiva.
Le maschere furono sostituite da persone vere e proprie, con i loro caratteri e sentimenti, divenne fondamentale la presenza delle donne.
Molti però non appoggiarono il cambiamento:
– gli artisti non si sentivano più tali, dovevano esclusivamente imparare a memoria il racconto;
– la popolazione doveva adattarsi ad un linguaggio medio e non più basso, il che non era facile per i meno istruiti;
– i drammaturghi tradizionalisti, come il Chiari e il Gozzi, non volevano cambiare.

GOLDONI PARINI E ALFIERI VITA E IDEOLOGIA

Questi due costrinsero il commediografo a tenere sempre il pubblico attivo, scrisse centoventicinque opere, in tutta la sua vita, molto diverse tra loro, legate da un tema: la borghesia (la classe sociale promotrice dell’Illuminismo); il realismo fu l’elemento che caratterizzò i suoi componimenti, lui cambiò il modo di concepire, scrivere e realizzare opere teatrali, metteva in risalto la semplicità e la naturalezza delle cose, raccontando fatti comunissimi nella vita reale.
Carlo Goldoni nacque nel 1707 da una famiglia borghese veneziana; il padre era un medico amante del teatro, ma riteneva che suo figlio dovesse studiare giurisprudenza.
Alla morte del padre, la passione per la letteratura venne a galla, intraprese la vita teatrale, il contratto con Giuseppe Imer convinse il giovane ad abbandonare il lavoro d’avvocato che portava avanti per poter sopravvivere.
Le sue prime opere, Momolo Cortesan e Momolo sul Brenta, avevano qualcosa di nuovo: la parte del protagonista era scritta.


La sua prima sceneggiatura scritta interamente fu La donna di garbo.

Trattava un argomento molto caro a Goldoni, a differenza dei suoi contemporanei come Parini e Alfieri: una donna utilizzava le sue armi femminili per combattere i pregiudizi maschili di quel tempo.
L’anno successivo, il 1744, obbligò l’autore a trasferirsi a Pisa e a riprendere l’occupazione di avvocato, a causa di problemi finanziari con il fratello.
La passione per questo lavoro, però, anche se ritenuto dal commediografo stesso il più difficile del mondo, non cessò; scrisse Il servitore di due padroni, con una trama basata sulla furbizia e sull’intrigo.

DIFFERENZE TRA GOLDONI E ALFIERI

Nel 1748, firmò un contratto quadriennale con Girolamo Medebach, che lo vincolava alla composizione di quattro commedie e due melodrammi ogni anno.
I capolavori di questi anni furono: La vedova scaltra, dove ritornava la figura femminile che sfodera le sue arti seduttrici; lo stesso vale per La putta onorata.
La bottega del caffè invece presenta un caffè, i suoi clienti e il mondo che ruota intorno ad esso, sfruttando il “teatro corale”, ovvero l’utilizzo di un gruppo numeroso di attori, i quali narrano una storia ciascuno, portando così a conoscenza di tutti un insieme di vicende.
Il teatro comico: una compagnia teatrale deve mettere in scena una commedia: è la tecnica del “teatro nel teatro”, tecnica usata in seguito da Pirandello.
Tutto questo per far capire al pubblico l’importanza della commedia d’ambiente.

Poesia Italiana del 1700

Paolo Rolli è stato il maggior esponente dell’Arcadia, quel movimento poetico italiano sorto nel ‘700. Il programma dell’Arcadia ha i suoi ideali precursori in alcuni poeti che già nel Seicento disdegnavano il concettismo barocco, al quale rimproveravano la stravaganza nella scelta degli argomenti e le cadute di gusto.
Essi si impegnarono a ridare dignità e vigore al modello petrarchesco e teorizzano una poesia piacevole, basata su temi sinceri, non convenzionali, e al tempo stesso di un’originalità non esasperata. Tra coloro che interpretano con particolare sensibilità i motivi ai quali si è accennato e che anticipano le istanze di rinnovamento degli Arcadi, occupano un posto di rilievo Gian Vincenzo Gravina e Francesco de Lemene (che, in maturità, tenderà a proporre argomenti dal tono moraleggiante e sentenzioso).

La data di nascita del movimento si fa risalire al 5 ottobre 1690, quando un gruppo di intellettuali e scrittori in polemica con il “malgusto barocco”, fonda a Roma l’Arcadia, un’Accademia Letteraria che costituisce per molti aspetti l’espressione più importante della poesia del ‘700.

I fondatori dell’Arcadia sono quattordici: Gian Vincenzo Gravina, Giambattista Felice Zappi, Giovan Mario Crescimbeni, Lorenzo Magalatti, Vincenzo da Filicaia, Apostolo Zeno, Scipione Maffei, Ludovico Antonio Muratori, Giambattista Vico.

L’Arcadia si propone un rigido cerimoniale e dichiara la sua fedeltà alla tradizione bucolica, rilevabile nel nome stesso, che è quello della mitica regione greca abitata da poeti-pastori; i soci assumono pseudonimi d’origine pastorale e il luogo di raduno viene chiamato Bosco Parrasio. L’Accademia ha come insegna la siringa di Pan coronata di alloro e pino e per protettore gesù bambino perché “secondo la tradizione, i pastori furono i primi ad adorarlo”; come patrona o basilissa, la Regina Cristina di Svezia, al cui salotto letterario erano appartenuti alcuni dei fondatori.

Anche se i cerimoniali pastoriali dell’Arcadia suscitarono già all’epoca critiche e parodie (1), l’Arcadia ha una funzione importante nella storia della Letteratura Italiana: regolò in modo organico quell’orientamento verso la poesia bucolica promosso dal Sannazaro (2), la cui prima manifestazione si era avuta sul finire del ‘500 con i drammi pastorali “Aminta” del Tasso e “Pastor fido” del Guarini, e inoltre l’Arcadia compie un’opera capillare di organizzazione della cultura, perché apre succursali ovunque e raggiunge zone rimaste ai margini del dibattito intellettuale o addirittura escluse da esso come l’Abruzzo, la Sardegna o il Trentino. Alla magniloquenza barocca l’Arcadia contrappone modi espressivi limpidi e scorrevoli, che valorizzano la chiarezza del lessico e della sintassi e tendono a dare eleganza e nitore ai versi; il motto degli Arcadi potrebbe essere “correttezza e leggiadria”: per gli Arcadi la poesia deve essere uno strumento piacevole che abbia però il vero come oggetto e scopo.

La produzione arcadica ha come primo modello Petrarca; seguono i poeti greci Pindaro, Anacreonte, Teocrito, Orazio e Virgilio.
I temi fissi sono quelli idilliaco-pastorali, che si risolvono in immagini semplici e circoscritte, in piccole scene aggraziate, ma prive di un reale spessore e di scavo psicologico; anche i momenti di maggior tensione emotiva si alleggeriscono e si stemperano nel gusto sentimentale; del resto il difetto della poesia Arcadica era quello di vedere il tutto come un piacevole ornamento e un pretesto mondano e galante.

Tuttavia, in seguito a differenti vedute, l’Arcadia si scinderà in due: un gruppo di fuoriusciti, guidati dal Gravina, fondano l’Accademia dei Quirini, che però avrà vita breve e sarà riassorbita nell’Arcadia alla morte del Gravina stesso (1718). Le maggiori personalità della poesia del tempo furono Pietro Metastasio e Paolo Rolli. Derivazioni arcadiche si avranno anche nel Leopardi, nel Manzoni e nel Carducci.

Infine, parlando di Arcadia, si deve ricordare che anche in musica il tema delle stagioni e l’arte descrittiva ha innumerevoli riprese e basterà citare Vivaldi.
https://www.facebook.com/matilde.maisto/videos/1082242539263389
Qui di seguito riporto i versi più belli di Paolo Rolli


“Elegie alla primavera”

O amica degli amanti, primavera,
dolce principio de’ miei puri affetti,
cui forse oblio non porterà mai sera,
teco una volta sola i miei diletti
nacquero insieme con l’erbett’e i fiori:
ahimè, chi sa che in vano io non t’aspetti!
Dal verde bosco fra gli opachi orrori
grato era il legger sulle prische carte
le vaghe istorie degli antichi amori,
già da i latini eterni ingegni sparte,
e da quelli che dopo Italia ornaro
con lo splendor della poetic’arte;
sul margine d’un rio garrulo e chiaro,
ove l’ombre cadean da un’elce annosa,
quanto mai grato era il seder del paro,
e quivi invèr la fresca aura odorosa
volger il viso e tesser lieti insieme
vari discorsi di piacevol cosa!
[…]
Ma se a te giunge e il tuo bel volto scorge
e teco parla, sol poich’è partita,
che tacque ciò che dir volea, s’accorge.
E s’io la sgrido poi perché smarrita
siasi dinanzi a te, ch’eran, risponde,
i più cari momenti di sua vita.
Altri così, che d’eloquenza abbonde,
avanti a re cui preparò gran cose,
vinto dal regio aspetto si confonde.
Or che le vaghe impallidite rose
del tuo viso riveston quel colore
che sul verde degli anni d’Amor vi pose,
deh fa’ che sazio di lor vita il core
parta da te sovente! In vano è nato,
se vive chiuso in folta siepe un fiore.


“Nel partir dal patrio suolo”

Nel partir dal patrio suolo
con Amor pur meco viene
la memoria del mio bene
che m’è forza abbandonar;
a Partenope men volo,
indi solco il mar Tirreno;
e afferrando il tosco seno,
rendo grazie a’ dei del mar.
Varco i gelidi Appennini,
Adria scorro e il suol lombardo,
e dovunque o penso o guardo
veggio e sento Amor con me;
ma l’orror de’ gioghi alpini
lo sgomenta e lo ritiene:
la memoria del mio bene
vien, ma seco Amor non è.
[…]
Vaghe ninfe manierose
veggo in riva a i galli fiumi,
vive, allegre, nere i lumi,
lusinghiere e tutte ardir:
colorite, spiritose,
movon l’animo a vaghezza;
ma d’Amor non va la frezza
dove nascon i sospir.
[…]


“Solitario bosco ombroso”

Solitario bosco ombroso
a te viene afflitto cor
per trovar qualche riposo
fra i silenzi in quest’orror.
Ogni oggetto ch’altrui piace,
per me lieto più non è:
ho perduta la mia pace,
sono io stesso in odio a me.
La mia Fille, il mio bel foco,
dite, o piante, è forse qui?
Ahi! la cerco in ogni loco;
e pur so ch’ella partì.
Qunte volte, o fronde grate,
la vostr’ombra ne coprì!
Corse d’ore sì beate
quanto rapido fuggì!
Dite almeno, amiche fronde,
se il mio ben più rivedrò;
ah!che l’eco mi risponde,
e mi par che dica: “No”.
Sento un dolce mormorio;
un sospir forse sarà:
un sospir dell’idolo mio,
che mi dice: “Tornerà”.
Ah, ch’è il suon del rio, che frange
tra quei sassi il fresco umor;
e non mormora, ma piange
per pietà del mio dolor.
Ma se torna, vano e tardo
il ritorno, oh dei! sarà;
ché pietoso il dolce sguardo
sul mio cener piangerà.


“Ruscelletto, a far soggiorno”

Ruscelletto, a far soggiorno
teco io torno, sai perché?
A sfogar crudel tormento
col lamento vengo a te.
Sai che assiso in questa sponda
presso all’onda meco un dì,
Silvio al credulo mio core
giurò amore, e dir s’udì:
“Questo rio tornando al monte
la sua fonte rivedrà
pria che manchi, o pastorella,
la mia bella fedeltà”

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