LETTERATITUDINI PARLA DELL’ENEIDE DI VIRGILIO CON PARTICOLARE ATTENZIONE ALLA FIGURA DI DIDONE

Letteratitudini, il gruppo letterario di Cancello ed Arnone, amanti della letteratura in questa occasione  da fiato alle trombe con il grande poema epico di Virgilio: l’Eneide. In questo poema, come ben sappiamo, il grande poeta si propone di narrare le imprese di Enea, l’eroe scampato alla distruzione di Troia, il quale, per volere del Fato, sbarcherà dopo molte peripezie sulle coste del Lazio, per fondarvi una nuova città, Lavinio, da cui trarrà origine Roma.
In circostanze molto avventurose Enea s’imbatte nella regina Didone che s’innamora follemente dell’eroe troiano. Didone è uno dei personaggi più vivi e vibranti di tutto il poema. E’  giovane, bella, astuta e intelligente. E’  anche una figura, anzi la figura più originale dell’opera, e la sua resa finale è data dallo spiccare della sua fisionomia e della sua personalità, quella più umana dell’opera. Non vuole, di conseguenza apparire fragile di fronte alle sventure e ai tradimenti subiti, tutt’altro, nonostante perduri in lei un’insicurezza nei riguardi del futuro, molto logorante. E’ modesta, sola, umile, nobile, non si vanta del suo grande potere femminile, è padrona di se stessa. La solidarietà e la benevolenza sono due doti innate nel suo cuore, destinate ad essere coltivate per la sua stessa esperienza di vita e ad essere sedimentate nel suo animo dalla sua stessa ragione.
Enea è uscito da esperienze dolorose, simile a quelle che Didone stessa ha sofferto, e nella sua anima di donna sensibile e ardente la pietà e l’ammirazione si trasformano ben presto in un sentimento più profondo. Dal canto suo, nel suo cuore assetato di affetto, che lei credeva di aver chiuso per sempre all’amore, fedele al ricordo del marito morto Sicheo, si ridesta l’antica fiamma. Il suo amore è impeto, passione, desiderio turbinoso, ardore di sensi: scelta una strada, la regina la percorre sino in fondo, anche oltre l’amore, nel fiore di un odio inesorabile.
Enea è per Didone una ventata che travolge ogni resistenza, rompe ogni freno, le fa trascurare ogni affare di stato, perché ella dedica il suo pensiero all’eroe troiano, che le appare il sicuro sostegno della sua vita e del suo recente regno.
Perciò la delusione è più bruciante, il disinganno più crudele: quando vede che l’eroe tanto ammirato non ha una parola di rimpianto per l’ amore che finisce, nè una lacrima per la sorte della donna che sta per abbandonare, il suo affetto per lui si muta in disprezzo e in odio. Pervasa da una rabbiosa e cieca brama di autodistruzione, invoca gli dei affinché sull’uomo, un tempo amato, scenda la maledizione del cielo e dell’ inferno, che coinvolge presente e futuro, in un travolgente delirio che evoca forze naturali e sovrannaturali . Spera ardentemente che a causa della propria morte nasca tra le due stirpi un odio eterno. Si getta sulla punta della spada avuta in dono da Enea e muore tra le fiamme del rogo che ella stessa si è costruita sulla più alta loggia della reggia .
Comunque anche di fronte a questa granitica accettazione rassegnata del destino, Didone riacquista allora la propria austera dignità di regina, prorompendo con fiere parole di sdegno, e si sfoga con un’amarezza che gradualmente trasforma l’amore in odio e lo gonfia con un linguaggio di tagliente ironia e di disperato sarcasmo.
Didone, una donna potente, una regina, una lottatrice, una arresa al suo destino, ma soprattutto una donna innamorata.

I Troiani stanno ormai allestendo le navi e preparando la partenza. Osservati dall’alto della rocca, appaiono come formiche che saccheggiano il cibo e, «memori dell’inverno, lo ripongono in casa», con previdenza.

Mentre pone i doni sull’altare, Didone vede tristi presagi di morte: le acque sacre si anneriscono e il vino si tramuta in sangue. Da un tempio di marmo, collocato nella reggia ove Didone venerava il primo marito, la donna sente provenire voci di Sicheo. Il gufo prolunga per tutta la notte il suo canto lugubre. Tante e tali sono le visioni funeree. La regina non le condivide con nessuno, neppure con la sorella. In sogno appare addirittura Enea a tormentare la regina, che si vede sola e abbandonata, senza più conforto da parte di alcuno.

Ormai la decisione di morire è presa, ma Didone vuole celare il suo progetto a tutti, anche all’amata sorella Anna. Per tranquillizzarla e rasserenarla le racconta di aver trovato una via per sanare il conflitto e il dolore: nel paese degli Etiopi vive una sacerdotessa che ha il dono di sciogliere gli affanni dei mortali. Le chiede di preparare un rogo e di porvi sopra le spoglie e le armi di Enea lasciate sul letto e lo stesso talamo. Perché Didone riprenda a stare bene è necessario cancellare tutti i ricordi mortali di Enea. Anna crede a queste parole, non comprende le reali intenzioni della sorella.

Eretto il rogo, Didone riveste il luogo di ghirlande e lo abbellisce. Scioglie i capelli e invoca le divinità: Erebo, Caos, la triplice Ecate e «se c’è una qualche potenza, giusta e benevola» che abbia «a cuore gli amanti con sorte ingiusta». Giunge la notte, quando tutti, stanchi dalle fatiche diurne, trovano un agevole sonno, mentre la regina sente gli affanni raddoppiare nel petto e si chiede cosa possa fare: affrontare i vecchi pretendenti oppure inseguire le flotte dei Troiani in partenza, ordinando al suo popolo di abbandonare di nuovo la patria, come un tempo? La donna non ha alternative, ne è ormai certa dicendo a se stessa: «Muori piuttosto come hai meritato, cancella con la spada il dolore/ […] non fu salvata la fede promessa alla cenere di Sicheo».

Intanto, Enea si addormenta e in sogno gli appare di nuovo Mercurio che lo sprona a partire, ora che il vento è favorevole e prima che la regina possa macchinare trame contro di lui e i suoi compagni. Svegliatosi di soprassalto, Enea sprona i Troiani alla partenza, obbedendo al comando del dio, sguaina la spada e taglia gli ormeggi. La flotta prende così il largo. È ancora notte.

Sopraggiunge l’aurora. Didone vede le navi procedere a vele spiegate. Prima di darsi la morte, la regina scioglie un ultimo monologo. Si rimprovera di non aver ucciso Enea, «quello che dicono portare con sé i sacri penati,/ che dicono aver sostenuto sulle spalle il padre logorato dall’età». Si dispiace di non aver ammazzato il figlio di lui, Ascanio, e i Troiani tutti. Prega gli dei che Enea non possa godere «del regno o della luce desiderata, ma cada/ prima del tempo ed insepolto in mezzo alla sabbia». Maledice il popolo troiano, auspicando che ci siano in eterno guerra e odio tra i Cartaginesi e la discendenza di Enea:

[…] Per i popoli non ci siano alcun amore e patti.
Sorgi tu, un vendicatore, dalle nostre ossa
sì, insegui i coloni dardanii col ferro e col fuoco,
ora, dopo, in qualunque tempo si daranno le forze.
Prego lidi opposti a lidi, onde a flutti,
armi ad armi: combattano sia loro, sia i nipoti.

Virgilio inserisce così il mito eziologico dell’eterna inimicizia tra Romani e Cartaginesi, sfociata nelle tre guerre puniche che hanno portato alla distruzione di Cartagine nel 146 a. C. e risalente addirittura all’amore infelice tra Enea e Didone. Già nel Bellum poenicum di Nevio, incentrato sulla vicenda storica della prima guerra punica (lo scontro epocale che sancisce il passaggio del dominio sui mari dai Cartaginesi ai Romani) e nel contempo sulla vicenda leggendaria della fuga di Enea dalla città di Troia, si fa risalire la lotta tra i due popoli alla vicenda di Enea e Didone.

Prima di compiere l’estremo gesto, Didone chiede a Barce, nutrice di Sicheo, di far chiamare la sorella Anna, perché porti gli animali per i sacrifici e vengano conclusi i riti avviati. Neppure lei, Barce, intuisce i propositi di Didone, ben dissimulati. Rimasta sola, Didone si reca nella camera nuziale, guarda le vesti di Enea e, gettatasi sul letto, pronuncia le ultime parole:

Dolci spoglie, fin che i fati ed il dio permetteva,
accogliete quest’anima e scioglietemi da questi affanni.
Vissi ed il corso che la sorte mi diede, l’ho compiuto,
ed ora la grande immagine di me andrà sotto le terre.
Fondai una città famosa, vidi le mie mura,
vendicato il marito, ricevetti soddisfazione dal fratello nemico,
felice, ahi, troppo felice, se soltanto le carene
dardanie non avessero mai toccato i nostri lidi.

La donna parla con dolcezza alle vesti dell’uomo amato finché il fato non l’ha portato lontano. Parla anche con dignità e compostezza, con toni da regina, ricordando tutte le grandi azioni compiute per il suo popolo (la fondazione della città, la costruzione delle mura). Parla da moglie di Sicheo, da lei vendicato. Parla da donna che crede negli dei, in divinità che non hanno pietà delle sofferenze umane, ma, al contrario, provano invidia: tanta era la felicità di Didone che gli dei ne hanno provocato la sventura (secondo la credenza degli antichi). La pazzia (furor) di cui è vittima Didone è tale che lei, regina, non si accorge di abbandonare il suo popolo quando ancora la sua opera non è compiuta.

Didone preme la bocca sul letto e poi conclude: «Moriremo invendicate,/ma moriamo». Le ultime parole sono per Enea, che possa vedere dall’alto mare il fuoco della pira dove sarà posto il suo corpo «e porti con sé i presagi» della morte della regina. Virgilio non ci descrive il suicidio, ma la scena che appare dinanzi agli occhi delle ancelle dopo che lei ha pronunciato le ultime parole. Sentiamo i versi latini:

Dixerat, atque illam media inter talia ferro

            conlapsam aspiciunt comites ensemque cruore

            spumanten sparsasque manus.

Le ancelle (comites) vedono Didone (illam) che ha già compiuto il gesto estremo (conlapsam ovvero «lasciatasi cadere» è un participio passato che indica che l’azione è già avvenuta), la spada è spumeggiante (spumantem) di sangue (cruore) così come le sue mani. Il linguaggio è alto e tragico, come si addice ad una tragedia. I modelli di Virgilio vanno ricercati nelle tragedie di Sofocle e di Euripide.

La notizia della morte della regina si sparge per la città; la Fama la diffonde. Anna si dispera per la morte della sorella: si sente abbandonata e ingannata, sconsolata perché Didone non ha voluto trovare conforto in lei. La rimprovera:

Uccidesti, sorella, te e me ed il popolo e gli antenati
sidonii e la tua città. […]

Didone finisce nell’Ade, tra i morti prima del tempo (nella zona dei suicidi per amore). Enea la incontrerà di nuovo (e per l’ultima volta) quando si recherà negli Inferi (libro VI).

0 Comments

No comments!

There are no comments yet, but you can be first to comment this article.

Leave reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *