Martedì 19 febbraio p.v. a Letteratitudini: Ninfa plebea di Domenico Rea

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Anni ‘30. “Cresciuta ed educata pressapoco come un pollo da batteria da cortile”, Miluzza ha tredici anni e vive in un basso umido e scuro, risalente alla dominazione spagnola, del Bùvero, borgo popolare di Nofi, vicino al quartiere militare costruito dai Borboni che ora ospita il 30° fanteria. Suo padre Giacchino è un piccolo sarto, rifinitore del sarto titolare del quartiere; sua madre, Nunziata, lo aiuta e si occupa soprattutto delle misurazioni accogliendo i militari dietro il paravento che isola una piccola sala prove nello stanzone che è casa e laboratorio insieme. Nunziata è “bella e buona, virtuosa, faticatora e una brava compagna. […] Ma aveva quel difetto là che nemmeno una malattia quasi mortale era riuscita a toglierle”. Ci avevano provato parenti e amici, e anche lui suo marito, a parlarle; lei piangeva, si strappava i capelli, giurava di non farlo più ma alla prima occasione non sapeva resistere. E Giacchino se l’era sposata, pur consapevole di “non essere valido”, di aver “il difetto” – quell’altro difetto -, perché “gli avevano detto che si poteva sostituire il marchingegno con tante altre cose per tenere soddisfatta una donna”. Poi il tempo è passato, e adesso lui si preoccupa soprattutto che sua figlia (che forse sua non è nemmeno) non senta l’affanno e i rantoli di Nunziata lì accanto, dietro il paravento con il biondo capitano vicentino. Insieme a loro tre vive anche il nonno Fefele, padre di Nunziata, il miglior pizzaiuolo del circondario, che dorme su una branda accanto al letto matrimoniale e al lettuccio di Miluzza. Con la sua esuberanza e vitalità, Nunziata è l’anima della famiglia, il cuore della casa; l’immagine di lei, pochi minuti prima di morire di emorragia, “in ginocchio, le enormi natiche scoperte” china davanti al capitano rosso e inebetito, resterà per sempre stampata negli occhi della bambina, in un misto di orrore ed eccitazione. Miluzza ha un’amica del cuore, Annuzza, e tra loro si confidano in segreto quello che capita quando vanno a sbrigare servizi in paese. Miluzza, ad esempio, va spesso alla sozza cantina de La Moschella a prendere il vino e quando non c’è nessuno la vedova le dà cinque lire d’argento se si lascia toccare. A lei non dispiace, così come volentieri entra nell’antro di don Proclo ‘o Bizzoco che ha un Ferramenta&Colori e che le racconta la favola dell’orco e di Catuccio se in lei accetta di mostrargli “la grotticella della fata” in cambio di venti lire. E poi c’è il parroco don Aspreno, poveruomo, a cui Miluzza una volta alla settimana rinfresca le piaghe all’inguine causate dal sovrappeso e che si preoccupa sempre per lei e le dice ogni volta “E ora fammi vedere a te se ci hai ancora tutto”. A volte Annuzza e Miluzza si ritrovano nel bugigattolo che serve per i bisogni, si guardano si toccano e ridono e giocano spensierate. Non sono pochi gli uomini e le donne di cui Miluzza attira le attenzioni, ma su di lei pesa la fama di sua madre, perché – si sa – “Tale madre, tale figlia”. E un giorno di lei si accorge anche don Peppe, ricco proprietario di diverse aziende del territorio, che decide di assumerla e poi…

Pubblicato nell’ottobre 1992 per Leandro Editore, Ninfa plebea – dello scrittore e giornalista Domenico Rea scomparso nel 1994, nato in una famiglia semianalfabeta, autore di numerosissimi racconti scritti a partire dai quindici anni oltre che di recensioni e contributi critici, ma di un solo altro romanzo risalente a trent’anni prima, Una vampata di rossore (1958) – risulta vincitore al 47° Premio Strega nel 1993, battendo a sorpresa con 154 voti Dacia Maraini (Bagheria, 81 voti) data per vincente fino all’antivigilia. Come il suo primo romanzo, anche Ninfa plebea è ambientato a Nofi, città immaginaria facilmente identificabile con Nocera inferiore – dove Rea visse sfollato da Napoli durante la guerra – a 30 chilometri dal capoluogo, negli anni ’30 fino al 1945 – una data è indicata con precisione nel romanzo, ed è il 21 giugno 1943, quando la città, che guardava alla guerra da lontano, immersa nella sua dimensione campagnola, viene improvvisamente bombardata. Il nome della città, ha raccontato lo stesso autore, è una specie di acrostico, aggiungendo poi “Ma c’era un’altra versione di cui mi compiaccio. Nofi era il nome di un regno dall’orizzonte illimitato”. Un mondo, una definizione spazio-temporale – dice Antonio Franchini nella illuminante postfazione – come “un vero e proprio ‘medioevo’” che poco ci interessa sapere quanto realmente somigli alla Nocera/Nofi degli anni ’30; certo si tratta di un sud che, se mai è esistito, non esiste più da un pezzo, nel male ma anche nel bene. Quello che invece importa è che “Erano anni in cui gli impulsi dell’uomo erano tutti volti a soddisfare necessità primarie, il bisogno di cibo, di calore, e le infiammazioni di una sensualità acre, animalesca, olfattiva, esaltata dagli effluvi di quei corpi poco lavati, non deodorati, non asettici”. Questo è Ninfa plebea, infatti, la narrazione di una specie di epica contadina, fitta di elementi rozzi, sporchi, fatta di puri istinti, note drammatiche, nella quale la sessualità (e assai poco altro) è l’unico spazio di brutale piacere concesso all’uomo, ma si tratta di un eros ferino e primitivo, bestiale, animalesco. E una bestiola è l’eroina di questa epica, Miluzza, nient’affatto ingenua ma tutta istinto e vita primigenia. Un racconto pieno di colori, sapori, odori – puzze più che altro -, natura meravigliosa e intatta descritta con pennellate rapide e decise. Eppure il senso che si affianca alla brutalità è quello di una certa stridente dolcezza, come in un racconto sporco e incantato insieme, ricamato con dialettismi e termini volgari. Chi ha parlato di una educazione sentimentale si è sbagliato; come ebbe a sottolineare Rea è “soltanto educazione brutale”, sostenendo che il suo romanzo parla della plebe, “quasi un mondo che sta fuori, asociale. Plebe significa ‘che non è diventato popolo’”. E sbaglia anche chi parla di un Rea neorealista, lontano dalla definizione per l’assoluta mancanza di messaggi o conclusioni morali. Ancora una volta è lo stesso autore ad aver indicato la strada per una interpretazione corretta del suo lavoro, quando ha dichiarato la sua ispirazione: “Padre dei padri è Basile, favolista napoletano e mondiale”, e poi i trecentisti (Boccaccio), i cinquecentisti (Bandello), i secentisti. Ed è così che con l’autore della postfazione riusciamo a capire a chi somiglia davvero Miluzza: “alle belle fanciulle accorte del Cunto de li Cunti“! E capiamo anche che Ninfa plebea è – in questo filone – da considerarsi una favola, dove le botteghe assomigliano ad antri abitati da vermi striscianti o dal “topo zoccola” che combatte con un gatto; dove le metafore degli organi sessuali appartengono allo stesso mondo favolistico; dove non manca il lieto fine quasi inaspettato, nel quale colei che sembrava non poter tornare ad una purezza (reale e metaforica) in realtà mai conosciuta e quasi negata per nascita si scopre che in qualche modo (reale o metaforico) questa purezza l’ha mantenuta fino al premio finale. Come è difficile leggere per davvero certi libri, te ne accorgi quanto ti imbatti in commenti tranchant di lettori che sentenziano: ”Soltanto deliri di un vecchio porco”. Sì, Ninfa plebea spesso disturba, lo squallore lascia a tratti disgustati; ma quando mai un libro non banale lascia indifferenti? Domenico Rea – autodidatta formatosi anche su “pagine di mistici, di cronisti, di visionari ed eretici, e filastrocche popolari, canti, antichi motti e detti, in una commistione continua di alto e basso, di umile e di sublime, di miseria e nobiltà” – rapisce con la sua prosa che incanta e respinge; ha detto “Per me la riuscita di un libro non è nella riuscita di una storia. È la riuscita, se uno è capace di farlo, di uno stile”. È vero che è importante avere una storia, ma saperla raccontare è altrettanto importante e anzi talvolta capita che il “come” svetti sul “cosa”. Leggete Ninfa plebea, e se avete dubbi in merito li dissiperete. Nel 1996 Lina Wertmüller ha girato il film omonimo, interpretato da Raul Bova e con le musiche di Ennio Morricone, tra Puglia e Basilicata, compresa la suggestiva città fantasma di Craco, ottenendo nomination al David di Donatello e al Nastro d’argento.

 

 

IL FILM

 

NINFA PLEBEA è un film di genere drammatico del 1996, diretto da Lina Wertmüller, con Lucia Cara e Luisa Amatucci. Durata 110 minuti. Distribuito da ITALIAN INTERNATIONAL FILM – COLUMBIA TRISTAR HOME VIDEO.

Poster

TRAMA NINFA PLEBEA:

Nel 1943, durante la seconda guerra mondiale, a Nofi, un paesello del Salernitano situato in zona collinosa, conduce una vita tranquilla Miluzza, una adolescente (15 anni) semplice e spontanea ma curiosa di tutto e vitalissima. La madre Nunziata è donna sensualissima e piacente (il marito, Gioacchino, è al corrente di essere tradito ma, timido, fa solo proteste e allusioni per l’andirivieni in casa specie di soldati). Nella famiglia c’è anche il vecchio nonno, che ama molto la nipotina. La ragazza scherza con le amiche (una delle quali dai comportamenti molto ambigui), con un giovane soldato e spesso va a fare certe medicazioni al vecchio parroco, ma in sostanza nulla di grave accade, in quel paese piuttosto severo, che tuttavia abbonda di piaceri occulti e di complicità varie. La tenera Miluzza finisce presto additata da tutti quando, assunta in una fabbrica, subisce le angherie di un principale eternamente focoso. Per Miluzza è il crollo del suo mondo ancora infantile. In seguito la madre Nunziata muore dissanguata dopo un incontro troppo focoso con un soldato; il padre Gioacchino muore per il dolore della perdita della moglie; il nonno muore tra le macerie del paese distrutto da un bombardamento. Trasferitasi a casa di un’amica, Miluzza incontra Pietro, un disertore ferito i cui parenti vivono in una frazione non troppo lontana in una bella villa-casale. Loro sono gente agiata e Pietro, pure sporco e lacero com’è, appare alla povera Miluzza, affascinata dalla di lui bellezza, come il principe delle favole. Tanto lei è passionale e timida, quanto lui è discreto e affettuoso. Lei lo accompagna fino alla villa: la madre (Gesummina) diffida e non poco di quella ragazza, ma Pietro si dichiara subito innamorato. Mentre la guerra si sta allontanando verso il Nord, Miluzza ricambia il giovane con sentimenti sinceri e lui vuole sposarla. La severa madre vorrebbe sottoporre Miluzza alle esperte mani di una mammana locale per verificare la sua verginità ma Miluzza strilla e si oppone. Tutto finisce con le nozze: finalmente Miluzza ha trovato la felicità, dopo umiliazioni e violenze.

CRITICA DI NINFA PLEBEA:

“Ninfa plebea” è un film imbarazzante nella sua continua altalena tra realismo e fiaba, squarci lirici e momenti di epica contadina, melodramma a freddo e ricostruzione antropologica, di un Sud così remoto e diverso, ma in qualche misura ancora attuale, tra inferno e paradiso. La Wertmuller insegue i miti della purezza e le sue contraddizioni già vagheggiati da Rea (pura naturalità, puro istinto, puro candore e così via) senza raggiungerli mai. Non ci si crede, ai suoi personaggi e alle loro peripezie, pur apprezzando la scelta delle facce e dei corpi, compresi quelli dell’esordiente Lucia Cara, ninfa plebea dalla bocca ridarella e dagli occhi profondi. (Il Giorno, Morando Morandini, 13/4/96)Nei “tableaux vivants” della Wertmuller non si respira l’odore dei corpi, la commistione fra pratiche pagane e ritualità cattoliche, quel passare da bestialità a dolcezze che sono propri di Rea. Vi manca anche quel senso di “movimento” che, pur fra i clamori dovuti a un temperamento eccessivo, si rinviene in altri film della regista. In questo scenario falso e morto la stessa sessualità – l’unica zattera a cui si attaccano i diseredati, i dannati della terra di Rea – acquista una coloritura sfatta come se fossimo davanti a cadaveri dalla faccia vistosamente tinta di belletto. E di cadaveri è tutta una sfilata nei capitoli iniziali e centrali di Ninfa plebea: dalla madre che se la fa con un militare fino a uscirne dissanguata (ma perché Stefania Sandrelli che pure ha numerose frecce nel proprio arco si ostina a ripetere il ruolo della mai sazia di amplessi?) al di lei marito e, nel corso di un bombardamento risolto con una simulazione da sagra paesana, al nonno. (Avvenire, Francesco Bolzoni, 21/4/96)

 

 

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