Natalia Ginzburg “La strada che va in città”

Una delle più importanti novelle dell’allora ancora giovane Natalia Ginzburg, scrittrice italiana fra le più celebri del Novecento. Pubblicato sotto lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte, a causa delle leggi razziali, La strada che va in città è il racconto di una giovanissima ragazza che sceglie di dare una svolta alla sua vita attraverso un matrimonio di interesse, la cosiddetta “strada che va in città”.

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L’autrice

Natalia Ginzburg (Levi) nasce a Palermo nel 1916 da padre ebreo e antifascista e madre milanese. Trascorre l’infanzia e l’adolescenza a Torino in uno stato di emarginazione, a cui trova conforto nella scrittura. Nel 1933 pubblica sulla rivista Solaria il suo primo racconto “I bambini”, e nel 1938 sposa Leone Ginzburg, col cui cognome firmerà tutte le opere successive, e dal quale avrà tre figli. Pubblica le prime opere come La strada che va in città e E’ stato così, a cui segue una prolifica produzione letteraria, anche in campo teatrale con le commedie Ti ho sposato per allegria e Paese di mare. Di rilevanza è anche il suo impegno politico, in sintonia con i maggiori intellettuali italiani militanti, orientati verso posizione politiche di sinistra. Sarà eletta anche al Parlamento nelle liste del Partito comunista italiano.

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La strada che va in città
Dalia, la disgraziata protagonista, vive in piccolo paesino di campagna, con una madre che non sopporta – sentimento ricambiato, e i suoi fratelli. La sua vita però è divisa tra il piccolo paese, che vuole lasciare, e la città, fonte sempre rinnovata della sua gioia e delle sue speranze. E’ lì che trascorre intere giornate con i fratelli e con le amiche. E’ lì che vive la sorella maggiore Azalea, sposata col suo ricco marito, che le permette di vivere tra agi e lussi, e indossare quella pelliccia di coniglio e quei guanti bianchi che Dalia invidia tanto.
E mi misi a pensare a certi guanti che mi sarei comprata dopo l’ospedale, di pelle bianca con le cuciture nere, come aveva Azalea, e poi tutti i vestiti e i cappelli che volevo farmi, per essere elegante e far dispetto a mia suocera, che avrebbe detto che sciupavo i denari.

Azalea diventa un punto di riferimento per la ragazza, che non perde l’occasione di andarle a far visita nella sua bella casa, animata dai suoi bambini e dalla serva Ottavia che si prende cura di loro e della signora.
Il Nini invece non era sposato. Conviveva con una ricca vedova, e anche lui faceva una bella vita in una casa di lusso – sebbene lavorasse anch’egli in una fabbrica. Questo almeno finché non si fu stancato di stare accanto alla sua fidanzata Antonietta, e aveva deciso di andare a vivere da solo. Allora era diventato uno sporco ubriacone, e Antonietta incolpava Dalia di questo.
Già, perché il Nini faceva da tempo la corte a Dalia, la quale al contrario trovava gusto a farlo soffrire. Del resto Dalia aspettava un bambino, e questo rendeva il Nini amareggiato e deluso. Tuttavia non aveva mai smesso di volerle bene, sebbene tendeva a nasconderlo.
Dalia attendeva un bambino, sì. Era rimasta incinta del ricco figlio del dottore del paese. Lei non era innamorata di lui. E neanche lui di lei, fino ad un certo punto. Ma la storia del bambino aveva cambiato tutto. Aveva cambiato le loro vite, i loro sogni, le loro speranze per il futuro. Dalia amava il Nini. Aveva scoperto che il vero amore era oltre quel finto rapporto tra lei e Giulio, il figlio del dottore.
“Per me sarebbe stato meglio morire, – pensavo, – sono stata troppo stupida e disgraziata. Adesso non so più cosa vorrei”. Ma forse la sola cosa che volevo era tornare com’ero una volta, mettere il mio vestito celeste e scappare ogni giorno in città, e cercare del Nini e vedere se era innamorato di me, e andare anche con Giulio in pineta ma senza doverlo sposare. E quando la mia vita era così non facevo che pensare che mi annoiavo e aspettare qualche cosa d’altro, e speravo che Giulio mi sposasse per andarmene via di casa.
Ma non poteva farci nulla. Soprattutto dopo che il Nini era morto. E allora doveva mettere da parte la sua vita, e far spazio alla sua nuova vita insieme a Giulio e al suo bambino, che non aveva ancora capito se gli volesse bene. Dalia sceglie di prendere la strada che va in città, quella del matrimonio di interesse, rifiuta la vita contadina, e va a vivere come una vera signora in pelliccia, nella sua nuova e lussuosa casa. I sentimenti sembrano avere un marginale. E pure il ricordo del suo amato Nini, che ora che è morto gli fa un po’ paura, la coglie sempre di sorpresa.
Pochi giorni dopo lasciai l’ospedale ed entrai nella mia nuova casa. E cominciò per me un’altra vita, una vita dove non c’era più il Nini, che era morto e non dovevo pensarci perchè non serviva, e dove c’era invece il bambino, Giulio, la casa coi nuovi mobili e le tende e le lampade, la serva che aveva scovato mia suocera, e mia suocera che veniva ogni tanto.
In questo racconto lungo, un’atmosfera di tristezza, passività, avvilimento, accompagna la storia della protagonista lungo le settanta pagine. L’autrice descrive la solitudine, l’abbandono della famiglia, degli affetti, con un turpe realismo, che non lascia spazio all’ironia o alla gioia, perché riprende in modo quantomai essenziale e veritiero la storia di chi è costretto a lasciare la propria terra e i propri cari per vivere una vita, forse di rimpianti, forse di tristezza, nel lusso e negli agi che la mente adolescente della protagonista contempla nell’onirica dimensione della “città”, in un periodo storico di transizione tra la vita rurale e la vita urbana.

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