Prefazione al romanzo di Matilde Maisto “HO BISOGNO DI SOGNARE” scritta dal prof. Raffaele Raimondo
Il professore Raffaele Raimondo scrive la prefazione al romanzo della Maisto
PREFAZIONE
Grande, nella sua semplicità! Così mi appare quest’opera prima della giornalista, ed ora scrittrice, Matilde Maisto. Nel nostro tempo, in cui la “complessità” è nei fenomeni e nelle cose, nelle elaborazioni teoriche come nell’operatività quotidiana, ritrovare un itinerario semplice è una vera fortuna, quasi un rinnovato “battesimo” che appunto purifica, almeno per una volta, dalle scorie del “complesso” che oggi domina, per natura, per necessità e, finanche, per una sorta di diabolica e contraddittoria volontà di autodistruzione e godimento, individuale e collettiva purtroppo largamente diffusa.
I “brevi racconti” della Maisto si collocano sulla sponda opposta, rigeneranti, quasi disarmanti. Ed è, per davvero, un piacere leggerli, in quanto ti riportano ad un’atmosfera per certi versi pascoliana, ad una dimensione della mente e dell’animo ora perduta o quantomeno obnubilata dalle tempeste e dalla deriva valoriale dell’epoca in cui ci è dato vivere.
Il sogno, il bisogno indomabile di sognare: questo leitmotiv fa da mastice; lega esplicitamente le “piccole storie” che la Maisto ha saputo inventare, con dominanza di realismo e “cantucci” di amena fantasia.
Buoni sentimenti e talora anche atroci popolano le vicende narrate. Momenti di vita vissuta, aspirazioni, lenti sprofondamenti e balzi trionfanti, ordinarie circostanze ed eventi singolari ed irripetibili: questi scenari ed altri scenari, queste ed altre emozioni l’Autrice ci propone, riducendo però sempre gli sviluppi a quel canone della semplicità cui
s’è fatto sùbito cenno.
L’amore illumina le pagine della raccolta. Giustamente individuato e cantato come il più grande motore positivo dell’esistenza, naturalmente prevale in ampiezza e profondità su tutte le manifestazioni dell’uomo. E c’è, dunque, un felice connubio fra il sogno e l’amore. Un connubio dal
quale Matilde è affascinata e ne scandaglia, spesso con stupore, i più diversi toni, i registri che ciascuno di noi può sperimentare nella quotidianità e per la vita intera. Sicché, vigendo tale patto, pure le vicende più drammatiche o perfino tragiche si sciolgono e si sublimano in una visione, diremmo, originaria, da “paradiso terrestre”.
La dimensione familiare torna potente in tante pagine che Matilde ha racchiuso sotto il titolo “…Ho bisogno di sognare”: una scelta di campo ed una prospettiva che risultano, insieme, esigenza profonda del cuore e sfida alla propria ed all’altrui interiorità.
Se è vero, come è vero, che attualmente la “famiglia”, nella nostra civiltà occidentale, attraversa una crisi devastante e senza precedenti, la proposta di questo libro coincide con la riscoperta dei più autentici valori della tradizione familiare consolidatasi per secoli e adesso sfortunatamente esposta a naufragi ricorrenti, oltre ogni immaginabile decadenza rispetto a quel passato in cui la “coesione” della famiglia stessa era addirittura un indiscutibile dogma.
Ed allora tutti i racconti compendiano una sorprendente saga familiare, ricca di vissuti concreti, che a tratti si configura quasi come un “modello”, un archetipo di cui, in questa tormentata temperie, è raro trovar traccia, mentre burrasche d’ogni specie abbondano ed infangano identità ed onore, consapevolezza dell’appartenenza e rassicuranti progetti esistenziali.
Un altro terreno elettivo è l’emigrazione: l’andar lontano dalla terra natìa e rimaner per anni là dove gli stili di vita, le ricorrenze, le speranze, le lotte, le sconfitte e le vittorie hanno un valore ed un sapore diverso, nuovo, insospettato. E della condizione dell’emigrato – nella fattispecie in Lombardia, nei dintorni di Milano – la Maisto non esplora le croci di stampo sociologico; si ferma bensì entro i confini delle reazioni personali e delle modificate dinamiche interpersonali. E, trascorso un lungo periodo, il “ritorno a casa”, coltivato per così tanto tempo, si carica di appagamenti a
lungo meditati, tenacemente cercati, finalmente avvertiti.
Il vasto universo dei ricordi – dai più dolorosi a quelli segnati da una tenerezza meravigliosa – è la sostanza di cui s’incarna gran parte degli accadimenti raccontati ed emerge tendenzialmente, per chiara opzione di fondo, un ricordare che fa bene all’anima, la addolcisce, la spinge all’ottimismo della ragione, sebbene la navigazione della memoria non
sempre si sia mossa sulle rotte della felicità.
L’Autrice racconta tutto questo senza veli, ma con pudicizia, seguendo il nudo svolgersi dei comportamenti e degli àmbiti in cui si esplicano. L’afflato, la ricerca di se stessi e degli altri -sui nervi sensibilissimi dello spirito-, l’urgenza dell’incontro umano in antitesi a qualsiasi scontro possibile, l’infanzia, la giovinezza, l’età matura e la vecchiaia, nei loro più comuni risvolti, tornano di riga in riga, non perdendo mai di vista orizzonti talvolta molto proiettati nel futuro, ma ineludibili per conquistare e difendere la serenità ed il senso della reciproca donazione, dell’accettazione dei propri simili e dell’impegno anche civile, mancando i
quali il vivere irrimediabilmente si complica, sovente si avvelena, imbocca – nei casi estremi – oscure gallerie che possono, talvolta, negare definitivamente l’uscita, per rivedere di nuovo il sole, rinascere.
Che altro rappresenterebbero, a volerle considerare a dovere com’è opportuno, certe frequenti storie che purtroppo osserviamo nella realtà o di cui leggiamo, con impressionanti reiterazioni, sui giornali e che infarciscono la cronaca contemporanea? “…Ho bisogno di sognare” si pone, viceversa, nella zona franca di un “modus vivendi” fondato
sul buon senso, sulle regole fondamentali della convivenza intra ed extrafamiliare, sulla baldanza dei buoni moti del cuore.
Conseguentemente, assume enorme rilievo, nei fatti narrati, la solidarietà, non quella pelosa di alcune “sacrestie” o di un “volontariato di mestiere” facilmente individuabile qui e là. Si tratta, per converso, di un approccio solidale che sorge dal desiderio di testimoniare sincera fratellanza ed
amore vero che fanno leva, anzitutto, sulla donazione di sé, più che su saltuari frammenti che sanno d’elemosina.
La forma che Matilde Maisto predilige è quella diaristica, benché incurante di una meticolosa cronologia che sembra
non interessarle affatto, presa com’è dalla voglia di rievocare episodi che l’hanno veduta protagonista oppure che ha osservato attentamente, fin nei meandri, con l’acume del letterato.
Accanto, c’è l’approccio epistolare che agevola il dialogo, che non esita a svelare segreti, emozioni, situazioni caratterizzate per lo più da intime fibrillazioni che non tutti sono disposti a sciorinare con immediatezza, senza riserve.
Le trame dei racconti scorrono essenziali, scarne, con sbocchi finali talora a sorpresa che, tuttavia, non stridono al cospetto del candore sostanziale che ha caratterizzato gli antefatti. Sintatticamente predominano frasi brevi, periodi paratattici. Il lessico, per ulteriore coerenza complessiva,
non fa incursioni nel coacervo di termini incomprensibili, estranei al linguaggio corrente di media cultura. Il che agevola la comprensione, attrae, gratifica.
Leggendo i racconti di Matilde, mi è tornata in mente Liala, pseudonimo di Amalia Liana Cambiasi Negretti Odeschi, una delle più amate scrittrici di romanzi d’appendice del Novecento italiano. Questo per dire che, presentando questo lavoro della Maisto, non vorrei cedere a nessuna esagerazione, né accreditare stupidamente alcun giudizio che
trabocchi al di là dell’effettivo valore artistico del libro, né tantomeno affermare che siamo di fronte ad un grande talento della letteratura: la stessa Autrice respingerebbe presto qualunque supervalutazione del suo talento.
Matilde ha voluto donarci questi racconti senza soverchie pretese, con la semplicità alla quale – lo ribadiamo – impronta la sua vita di tutti i giorni e che ha inteso trasferire anche in questo suo esordio letterario che, peraltro, fa da pendant all’impostazione palesemente culturale che distingue il visitatissimo giornale on line“Cancello ed Arnone News” (da lei diretto con ammirevole scrupolo e grande passione), nonché alla sua interessante iniziativa che va sotto il nome di “Letteratitudini” (un sorta di amichevole salotto in cui, finalmente, la lettura di testi d’autore è privilegiata; un salotto in qualche modo “unico” ed originale nel nostro comprensorio del
Basso Volturno e che merita d’essere frequentato, mentre
va aprendosi ad ulteriori affermazioni e fortune).
Ebbene, alla lettura delle pagine di Tilde, è la Liala del suo primo romanzo, “Signorsì” (1895), che riemerge dai miei ricordi di scuola: Amalia Liana cominciò a scrivere per superare il dolore;Matilde, forse o certamente, ha deciso di scrivere per ridar nuova e verdeggiante linfa alla sua voglia di vivere e di sognare! E, se Gabriele D’Annunzio coniò per
Amalia Liana lo pseudonimo che la rese famosa, così motivandolo “Ti chiamerò Liala perché ci sia sempre un’ala nel tuo nome”, nel mio piccolo mi sia permesso di associare il “sogno” di Matildea quell’ala o, meglio, a quell’incalzante “colpo d’ala” di cui ciascun “sogno” chiede la spinta.
Il mondo fantastico di Liala era affollato di “eroine romantiche e trasgressive, di ambientazioni eleganti e sofisticate”; ella fu definita la “regina delle storie d’amore”. Matilde guarda invece alla realtà, alla sua realtà, ma non si priva e non ci priva dei battiti più forti del suo e del nostro cuore.
I suoi personaggi sono quelli della propria famiglia e degli amici e dei “conoscenti” che con lei hanno percorso o percorrono un tratto di strada. I contesti che descrive sono assolutamente normali, vicinissimi all’esperienza di tutti noi. Eppure, dalle pieghe di tanta ordinaria dimensione partono i missili che sfrecciano verso il cielo, i sussulti di una
spiccata sensibilità, le speranze per un domani veramente migliore.
Anche per tali ragioni, raccomandiamo la lettura di questi racconti alle persone di ogni età: agli adulti, per ritrovarsi in un salutare bagno di valori da riscoprire e rivivere ogni giorno; ai giovani, perché possano “semplicemente”, alla maniera diMatilde, imparare a credere nell’uomo, nella comunità sociale e…in Dio.
Raffaele Raimondo
0 Comments
No comments!
There are no comments yet, but you can be first to comment this article.