Quanta “Italia nascosta” c’è anche in Puglia e Basilicata

Racconti d’arte / Dalla Santa Eufemia del Mantegna a Santa Maria della Croce di Casaranello: splendori da scoprire Carlo Vulpio svela le bellezze snobbate dai libri di viaggio

 E’una questione di prospettive. La prospettiva ha cambiato la pittura per gradi, il romanzo, melodia, fisica, filosofia, moda, linguaggio. E adesso anche i racconti di viaggio alla ricerca delle bellezze italiane. Ovvero de L’Italia nascosta (Skira ed. pagg. 215, euro 16,00), come la chiama Carlo Vulpio nel suo libro che cova un che di rivoluzionario. Perché pochi, o nessuno, a quanto afferma in quarta di copertina Vittorio Sgarbi – che andrebbe assunto come guardiano del bello in ogni paesino scempiato – ha svelato e dipinto l’Italia da una prospettiva non frequentata dalla manualistica stereotipata. Per i tipi di Skira, non a caso, una delle ultime editrici che non producono saponette invece che pagine.
Ovvio che Vulpio, giornalista del Corriere della Sera, autore di inchieste e reportage culturali, spesso anche polemici o aspri, pur forte delle conoscenze acquisite on è un critico d’arte di gioiosa marca pari al Vittorio dal ciuffo fluente o ad altri sapienti di rango. Ma, nelle facoltà spiazzanti del suo mestiere, ha scippato il fuoco della conoscenza agli stessi maestri: “Questo libro avrei dovuto scriverlo io – afferma, cioè grida, Sgarbi -. Mi sono distratto e Carlo Vulpio mi ha rubato il soggetto e l’editore”. E non scherza. Anzi.
Vulpio, segugio di beltà occultate, venne sguinzagliato da Antonio Troiano, “giornalista di razza e uomo con una parola sola”, nocchiero della redazione culturale del Corsera, sulle tracce degli splendori del Belpaese che nessuno finora s’era filati. E, in nome della nostra ignoranza, ne ha fiutati e scovati. Tanti. Ha spostato le lenti, ovvero l’inclinazione della sua testa, di cinque gradi. E tanto è bastato a catturare L’Italia nascosta, mondo straordinario, schermato alla vista di noi muli al basto di guide turistiche e ammaestramenti scolastici.
E’ qui dov’era e dove sarà, svelata su queste pagine occhieggianti di immagini. Lungo l’intera cartina a forma di stivale, carica di miracoli, anche in Puglia, naturalmente, tanto più che l’autore è un corregionale. E in Basilicata, mondo che conosce meglio delle sue tasche. Ed ecco allora, ne I nove cieli di Casaranello, nella chiesa di Santa Maria della Croce, Salento, spuntare il più prezioso dei mosaici bizantini pugliesi, come lo definì Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia. Un portento paleocristiano disteso nel borgo storico di Casarano, che deve indirettamente la sua oscura fama a un cronista non blasonato, Enrico Valente, che ne scrisse negli anni Cinquanta. Così che sotto le pennellate degli imbianchini risuscitarono affreschi italo-bizantini del Medioevo, corone fulgenti della “più importante testimonianza d’arte musiva bizantina, nel suo momento d’oro, sotto Ravenna“, li cataloga Sgarbi.
E’ lì dove è stato sempre e mai abbiamo guardato quella specie di stupefacente, assurdo, metafisico vuoto sospeso di ponte d’ingresso al poggio di Civita di Bagnoregio, vicino a Viterbo, che estende la sua fragilità per trecento metri verso un pugno di case che si batte contro un naturale stato di isolamento. Sono là i bui archivolti dei carruggi, vene esangui della vecchia San Remo. La restituita abbazia di Novalesa, Susa, con i suoi restauratori librari, benedettini in saio, l’antifonario gregoriano e una Regola del fondatore dell’ordine, resuscitati. E Vulpio esuma per la nostra delizia anche altri tesori sepolti a un tiro di schioppo dalle nostre case.
Per esempio, quanti fra voi hanno fatto fede davvero dei “quindici secoli di devozione” al San Michele di tutte le fedi, Monte Sant’Angelo, Daunia? Fuori dal turismo religioso in autobus climatizzato, rosario in mano? Lo diceva pure Padre Pio: “Prima di venire a San Giovanni Rotondo dovete andare a trovare San Michele”. E nell’Italia nascosta c’è più di una ragione spesa in favore dell’esortazione del Frate. L’incombente Grotta dell’Arcangelo. I milioni di pellegrini all’anno. La visita timorata nel sentimento di minorità di San Francesco, della quale non tutti sappiamo, le rune, i miti e le testimonianze di altre civiltà. La Basilica, la cappella del Santissimo Sacramento sotto la volta crociata. E catturante è anche la ricostruzione, sottesa di ironia benevola, della un tempo irrisa Montepeloso, che dal 1895 pensò bene di cambiar nome in Irsina, nel Materano.
L’autore riannoda i fili di storia, che danno di favola, dei bovi che portarono dal porto di Trani la inestimabile donazione del prete notaio Roberto de Mabilia, montepelosino spedito a studiare a Padova, che comprendeva, tanto per gradire, l’unica scultura di Andrea Mantegna, la Sant’Eufemia patrona che magnetizza gli incauti nella Cattedrale. Attribuzione che dobbiamo, sulla scorta della Vita Divae Euphemiae dell’umanista Pasquale Verrone , recuperata dal topo di Biblioteca Vaticana don Nicolino di Pasquale negli anni Ottanta, alla storica dell’arte Clara Gelao.
Per non parlare della Cripta dei cento santi o del peccato originale, che dimostra come e perché Matera non sia soltanto Sassi o sanguinamenti del film The Passion. “Nel buio di una delle grotte che, come finestrelle, dalla parete di roccia carsica… Si può vedere come l’uomo, e la donna, persero il Paradiso”.
Un ciclo di affreschi che si condensano nella chiesa rupestre in cui facilmente immagini sbucare ominidi con la clava. Una Bibbia figurata di scene esemplari. Mascherata tra le grinze possenti della gravina, rintracciata dopo le indicazioni di un contadino che usava il luogo come ricovero per le pecore, da Raffaello De Ruggieri, oggi sindaco della città, con moglie e amici che lo supportavano.
Per cui: se amate l’inerzia in vacanza, leggete ‘sto libro per dirvi di non aver visto e saputo niente, da Bolzano a Cefalù, della nazione che abitate. Se vi apprestate a partire dinamici, portatevi appresso ugualmente L’Italia nascosta, ripercorrendone la caccia culturale. A meno che – e perdonateci la chiusa sgarbesca, ma la troviamo fantastica – qualche amministratore caprino non abbia già sepolto con il cemento le bellezze indicate, o non ci abbiano pensato quei furboni dei writer. “Capre, capre, capre, capre..!” (ad libitum).
di Alberto Selvaggi, La Gazzetta del Mezzogiorno

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