Riflessione al Vangelo di Domenica 4 Ottobre 2020 a cura di Don Franco Galeone

4 ottobre 2020 – XXVII Domenica (T.O.)

È TEMPO D’INIZIARE A PREGARE PRO JUDAEIS ET CUM JUDAEIS!

Gruppo biblico ebraico-cristiano השרשים הקדושים

francescogaleone@libero.it

Prima lettura: Vigna del Signore è la casa d’Israele (Is 5,1). Seconda lettura: Il Dio della pace sarà con voi (Fil 4,6). Terza lettura: Il padrone darà la sua vigna ad altri vignaioli (Mt 21,33).

Non la razza e il sangue ma lo spirito e la scelta!

1) Intorno a questo brano del Vangelo di Matteo alita un soffio di

tragedia e di speranza. Noi siamo abituati a considerare la storia

come una catena di eventi che dipendono da altri eventi. Da Aristotele a Machiavelli, da Hobbes a Croce, siamo abituati a ragionare in termini di causa ed effetto: ogni effetto dipende da una causa, come un figlio da una madre. Quidquid fit, ab alio fit! Nel racconto del Vangelo invece la fatalità della storia è capovolta, il circolo del fato viene spezzato, l’eterna clessidra va in frantumi sotto i colpi della novità. Quale? La storia tutta è guidata da Qualcuno che ne regge le fila; il male non porta frutti; il malvagio ha i giorni contati; la vittima scartata dai costruttori diventa la base del futuro! Nel bene e nel male, si intende! Quindi, la vicenda degli antichi ebrei può ripetersi con i nuovi cristiani; tutte le chiese, tutte le religioni, devono ricordare questa drammatica possibilità. Essere cristiani richiede una risposta personale; non ci si salva perché battezzati o circoncisi, perché educati in una scuola cattolica o in una sinagoga rabbinica o in una moschea musulmana. Non la razza o il sangue ma lo spirito e la scelta. Davanti a Dio esiste questa sola distinzione: chi ama e chi odia, chi costruisce la torre di Babele e chi la civiltà dell’amore, chi ascolta Dio e chi lo rifiuta.

2) Fa impressione come numerose e fiorenti comunità cristiane dei primi secoli sono semplicemente scomparse: un tempo fiorenti metropoli, oggi spente necropoli! Cosa sarà del nostro cristianesimo occidentale tra alcuni secoli? Forse il primato passerà alle chiese di Africa e di Asia? Sarà sempre il Vaticano il centro della cattolicità? Si parlerà della Chiesa di Roma, di Milano, di Torino … come parliamo della scomparse chiese di Pergamo, di Filadelfia, di Ippona? L’attuale cultura della morte e del silenzio di Dio cancellerà ogni tradizione cristiana, o sarà occasione per una scelta personale dei valori cristiani? La punizione che tocca i vignaioli omicidi consiste nell’essere sostituiti da “altri”; non si dice da chi. Questa sostituzione scatta in tutti i tempi. Le Chiese che si rifanno a Cristo dovranno sempre tenere presente questa possibilità, perché Dio non può essere sconfitto dalla malizia dell’uomo. D’ora in poi, la “vigna di Dio” non è più un recinto sacro collocato sul monte Garizim o sul colle Vaticano, ma ogni uomo, ogni Chiesa, che accoglie il tesoro del Vangelo e “lo fa fruttificare”.

Gesù deluso di Israele e di noi!

3) Siamo davanti ad una parabola drammatica, raccontata nel momento più drammatico. Gesù è entrato a Gerusalemme, è cominciata la settimana di passione, tre giorni ancora e Gesù verrà arrestato e ucciso. E’ a questo punto che egli racconta la parabola dei vignaioli omicidi. Gesù è deluso di Israele. E Israele siamo anche noi! E’ un crescendo di ammonimenti, che culmineranno nel Giudizio universale. Sia il profeta Isaia che Gesù ricorrono al simbolo della vigna: se prendessimo alla lettera le parabole agricole di Gesù, dovremmo concludere che Dio, come agricoltore, non ha avuto molta fortuna! Come seminatore, ha sparso il seme a braccio tra pietre e spine, in un terreno incolto e pietroso; per giunta, ecco il nemico, il diavolo, che di notte sparge zizzania, e quel poco che resta se lo beccano gli uccelli. Nella lettura di Isaia, è la vigna che si guasta, e produce non uva dolce ma selvatica; nella lettura del Vangelo, sono i vignaioli che dicono: “Venite, uccidiamo il figlio del padrone, e l’eredità sarà nostra!”. Il lucido pazzo di Roecken, in una suggestiva pagina di La gaia scienza, annuncia la morte di Dio: “Lo abbiamo ucciso, voi ed io! Siamo noi tutti i suoi assassini!”. E’ vero? Può essere vero! Interroghiamoci: Dio è contento della nostra vita, delle nostre famiglie, delle nostre parrocchie? Noi cristiani siamo una annuncio di vita e di bene, o una caricatura di Dio e del Vangelo?

4) G. Papini, nella sua bella Storia di Cristo, si rivolge a Dio così: “Tutto quello che gli uomini potevano farti di male, anche dopo la tua morte (e più dopo morte che in vita), gli uomini lo hanno fatto”. Sembra che non ci sia più via di uscita. A Dio Padre restava solo il Figlio; anche questo mandò, per ultimo; “ultimo” non in senso cronologico (da ultimo), ma in senso teologico (l’ultimo): Gesù è veramente l’ultimo, Dio si gioca tutto, anche il Figlio! Dopo di che, non gli resta più nulla. Dopo di che, Dio resta il più Povero dei poveri. Ma ecco il ribaltamento; Dio non può essere sconfitto dalle sottili astuzie della ragione umana, ed ecco che quella pietra scartata diventa testata di angolo, quella croce uno strumento di salvezza, quel calvario la primizia dell’eternità, quella tomba vuota il serbatoio infinito della vita. Dio non si scoraggia! Ha proprio ragione J. Green quando scrive in Ciascuno la sua notte: “Dio ci segue passo passo. Ci sono volte in cui noi lo cacciamo come un mendicante, ed egli si allontana da noi un momento, ma poi ritorna di nuovo. Ci sono volte in cui gli gridiamo: Signore, lascia che io mi diverta, anche se poi dovrò bruciare. Ma egli non si allontana. E’ abituato agli insulti”.

Pregare “pro judaeis et cum judaeis”

5) Questa parabola, la più dura e diretta, è stata scritta contro i dirigenti religiosi del giudaismo, non contro il popolo. È stata redatta certamente dopo l’anno 70, come riflessione sul disastro sofferto dal popolo ebraico con la caduta di Gerusalemme nella guerra contro i romani, che rasero al suolo la Gerusalemme e il Tempio. La cosa più ragionevole è pensare che i cristiani hanno visto in quella rovina del popolo ebraico il compimento di un castigo divino: Dio ha tolto la vigna ad Israele e l’ha consegnata ad un altro popolo, che l’avrebbe fatta fruttificare. Per quanto negativa possa essere l’interpretazione che si dà alla parabola, mai si potrà spiegare come un rifiuto totale del popolo di Israele in blocco. Questo, oltre ad essere una falsità, significa fornire argomentazioni all’anti-semitismo, di cui in buona parte noi cristiani siamo stati responsabili. Il popolo ebraico merita tutto il nostro rispetto, per quanto indegni siano stati i sacerdoti e gli anziani del primo secolo.

6) Questo brano del Vangelo di Matteo costituisce il topos classico per la teoria della Chiesa “nuovo Israele” e “nuovo popolo”, che sostituisce il “vecchio Israele” e il “vecchio popolo”. Questa fanta-teoria teologica non ha nessun fondamento né scritturistico né teologico; la sua origine si perde nell’alto medioevo cristiano. E’ utile ricordare che Gesù non era un cristiano. Egli era a tutti gli effetti un ebreo. Non andava a messa la domenica, ma in sinagoga il sabato. Non parlava greco e latino, ma ebraico ed aramaico. Aveva una madre ebrea, Miriam, scura nella carnagione e nei capelli. Nessuno lo chiamava Pastore e Monsignore ma Rabbì. Non leggeva il Nuovo Testamento ma la Bibbia, e pensava che questa fosse la Sacra Scrittura. Non recitava il rosario ma i salmi, come nel momento della tentazione e della morte. Non celebrava Natale e Pasqua, ma Shavuòt e Pèsach. Non una Comunione ma un Seder. E rabbì Jeshùa non era un mediocre ma un osservante: portava gli ziziòth o frange rituali al mantello. Qualunque cosa possano aver detto Lutero o Paolo stesso, rabbì Jeshùa non è venuto a cancellare la Torah, ma a perfezionarla. Le ragioni fondamentali e necessarie per la riscoperta dell’ebraismo sono due:

a. la prima è di tipo cristologico, e parte da una osservazione molto semplice: la cristologia era inadeguata e imperfetta, nel senso che non rispettava tutti i dati della stessa tradizione cristiana. Era una cristologia “cripto-monofisita”, perché sosteneva che la natura umana di Gesù era stata tutta trasformata dal contatto con Dio, come una goccia di acqua dolce viene assorbita e annullata nell’oceano. E’ naturale che in questa eresia, eliminando la natura umana, anche l’ambiente storico, le radici culturali, perdono valore. Quello che vale è solo la realtà divina! Quando invece si recupera la umanità di Cristo, allora si incontra la sua ebraicità, il clima in cui è cresciuto, gli educatori che lo hanno formato, le feste e le preghiere, le tradizioni e i riti del paese di Nazaret. Il recupero della matrice ebraica non è solo nostalgia, ma è condizione assoluta per comprendere il cammino percorso dalla Chiesa, e ciò che eventualmente è stato smarrito lungo questo cammino;

b. la seconda è di tipo ecumenico, e vuole superare l’ecclesiocentrismo: “Fuori dalla Chiesa non c’è salvezza” è una formula nata all’interno del movimento agostiniano, accolta anche dal Concilio di Firenze (1439). Questo principio ha condotto la Chiesa a considerarsi come l’unico luogo, l’unico strumento, l’unico sacramento di salvezza. Questa presunzione contrapponeva la Chiesa non solo all’Ebraismo ma a tutte le altre religioni. Con il Vaticano II è iniziato il superamento di questa prospettiva: ci sono Parole di Dio disseminate e da ascoltare, Parole che non sono ancora state accolte nella tradizione cristiana. Sono frammenti del Logos, che ha cominciato ad esprimersi con la creazione, e poi nei diversi profeti, uomini autentici, spiriti sapienti. Allora, il cristiano deve necessariamente essere il pellegrino della Parola, dispersa nelle molteplicità delle esperienze religiose. E’ chiaro che, in questo pellegrinaggio, il primo incontro è con l’Ebraismo, ma questo dialogo si allarga poi a tutte le religioni.

7) Non si tratta di negare l’originalità, la specificità del Cristianesimo nei confronti dell’Ebraismo: per affermare la grandezza del Cristianesimo non occorre squalificare, ridicolizzare, demonizzare l’Ebraismo. Cristo non è un aerolito, un masso erratico caduto in Palestina. Dobbiamo affermare la sua grandezza ed originalità non al di fuori o contro l’Ebraismo, ma con e dentro l’Ebraismo. Questo non è il negativo su cui far risaltare il positivo di Cristo e del Cristianesimo. Un ritorno alle categorie ebraiche faciliterebbe la “de-ellenizzazione” del pensiero cristiano. In La subversion du Christianisme, il biblista J. Ellul sostiene che il Cristianesimo, passando dalle categorie ebraiche a quelle greco-romane, ha subito una deviazione. Da questa violenta e non riuscita fusione di ellenismo ed ebraismo, sono nate le tante dispute teologiche e le drammatiche eresie. Pensiero razionale greco e pensiero allegorico orientale sono molto divergenti. La cristologia, più della ecclesiologia, ha sofferto per questo “letto di Procuste”: dare un senso ontologico ad un linguaggio non ontologico significa fare “eis-egesi” e non “ex-egesi”. E’ giunto il tempo di scrivere, se non il Tractatus pro judaeis, almeno il Tractatus de iudaeis. Abbiamo pregato per 2000 anni “pro perfidis judaeis”; è giunto il tempo di iniziare a pregare “pro judaeis et cum judaeis”

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