San Francesco di Sales: i giornalisti del Basso Volturno alla Messa del Santo Patrono

Sabato 20 gennaio 2018 è stata celebrata a Caserta la ricorrenza di San Francesco di Sales, santo patrono dei giornalisti. Pertanto alle 13, nella cappella del Seminario, adiacente la Cattedrale, il pastore della diocesi del capoluogo, il vescovo D’Alise, ha celebrato la Santa Messa riservata ai giornalisti, cui hanno preso parte i vertici delle Associazioni regionali di categoria, oltre a numerosi giornalisti della provincia di Caserta.
San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti, precursore dell’informazione cattolica moderna: scriveva “Memoriali”, foglietti settimanali, per spiegare con un linguaggio semplice ed efficace le verità di fede; li affiggeva sui muri e li faceva scivolare sotto le porte.
Non è certo un santo sconosciuto, ma quasi certamente la maggior parte delle persone, salvo forse i giornalisti, dato che è il loro patrono, non saprebbe dire molto sulla sua vita. Soffermarci su qualcosa o qualcuno che pensiamo di conoscere e scoprire lo spessore di vita che ci viene offerto, significa imparare a stupirsi di fronte alle cose, imparare a guardarle sempre con occhi nuovi: non dare mai niente per scontato. E allora, lasciamoci stupire!
La prima educazione

“Era il 1567. Ad Annecy, residenza abituale del duca Giacomo di Savoia, stava per giungere Anna d’Este, sua promessa sposa. Per sua insistente richiesta, il duca aveva acconsentito, eccezionalmente, ad esporre alla pubblica venerazione dei fedeli il tesoro di famiglia più sacro: quella Sindone che oggi è custodita nel duomo di Torino. Tra i pellegrini che accorsero da ogni parte (…) c’erano i signori di Boisy, della famiglia di Sales. Françoise de Boisy, giovanissima, era incinta del suo primo figlio e lì – prostrata davanti a quella sacra tela che così eloquentemente le parlava della passione del Figlio benedetto di Dio – si sentì commuovere al pensiero del bambino che portava in grembo. Fece dunque una promessa: quel bambino doveva appartenere a Gesù per sempre. Lei lo avrebbe ricevuto solo in custodia, ma lo avrebbe educato per Lui e poi glielo avrebbe donato”. Così il piccolo Francesco crebbe in un ambiente che gli permise di sviluppare una particolare sensibilità per l’unione tra umano e divino: da una parte l’attenzione e la tenerezza materna e dall’altra, l’accompagnamento paterno, che gli garantiva di crescere come “un gentiluomo del tempo: accurata istruzione, equitazione, scherma, danza … e soprattutto una lealtà a tutta prova. (…) Fu negli anni dell’infanzia che imparò quella signorilità e dolcezza di modi che dovevano renderlo celebre, soprattutto per la maniera con cui le coniugava con una rara fortezza d’animo e di carattere. I biografi dicono che imparò già da fanciullo il valore di quella massima che poi avrebbe sempre applicato ed insegnato: “Siate quello che siete, ma desiderate di essere alla perfezione quello che siete”.
Gli studi superiori

Dopo essere stato educato nei più celebri collegi della zona, quando aveva poco più di undici anni fu inviato a Parigi, in compagnia di un precettore, per studiare dai padri gesuiti. “Durante il lungo viaggio, il bambino si rese conto per la prima volta della tragedia del suo tempo: Lione, Bourges, Orléans mostravano le ferite lasciate dalle guerre di religione. (…) A Parigi entrò nell’affascinante quartiere latino, dove si contavano allora non meno di centoquarantaquattro collegi e migliaia di studenti.” Gli studi di Grammatica, Umanità e Retorica e Arti, frequentati per circa un decennio, erano quelli previsti dal padre, per farlo sedere poi al Senato di Torino, come avvocato. Ma Francesco “provava invece una invincibile passione per le scienze sacre. (…) E, poiché il precettore studiava teologia alla Sorbona, gli promise di passargli i suoi appunti, ma segretamente, senza che il Signore di Boisy ne sapesse niente. Di fatto Francesco cominciò a seguire due diversi cicli di studio, a costo di saltare qualche volta i pasti.”
La crisi

Ma “certamente per un segreto disegno di Dio” a un certo punto “cadde in una crisi spirituale che cominciò a consumargli l’anima: (…) da un lato il cristianesimo gli sembrava l’esaltazione dell’amore. (…) Dall’altro lato però, c’era la terribile logica calvinista secondo cui Dio destina da sempre (pre destina) alcuni uomini alla salvezza eterna e altri alla dannazione”. E i professori della Sorbona spiegavano Agostino e Tommaso in maniera non molto dissimile. L’intelligenza e il cuore si dibattevano tra il dover ammettere a livello filosofico che Dio può fare ciò che vuole e la contemplazione del volto di Dio, così come si è manifestato: ricco di infinita misericordia.
“Questa crisi che era necessaria per prepararlo alla sua futura missione fu superata ai piedi della Vergine Santa. Davanti a un suo altare, egli trovò un giorno un foglio ad uso dei fedeli dove c’era scritto il Memorare: quella bella e antica preghiera che chiede alla Madonna di ‘ricordarsi che non si è inteso mai dire che uno, dopo essere ricorso alla sua protezione, sia stato abbandonato’. Francesco la recitò piangendo e non venne abbandonato. (…) A vent’anni egli era stato in tal modo preparato alla missione che lo attendeva: annunciare la tenerezza cattolica al mondo calvinista, in una situazione in cui quasi tutti anche i cattolici pensavano ormai di affidare la soluzione dei conflitti teologici alla violenza delle armi e alle scaltrezze della politica.”
La realizzazione della vocazione

Per continuare gli studi di diritto, dopo quelli di filosofia, secondo i progetti del padre, Francesco scelse la città di Padova, dove rimase alcuni anni. Quando ritornò in Savoia era tutto pronto per accoglierlo: una proprietà, un posto al tribunale di Chambéry, un seggio al supremo Senato di Savoia e perfino una fidanzata quattordicenne “nobile di sangue e di virtù”. Ma lui rifiutò tutto, mentre “amici che sapevano del suo desiderio di consacrarsi a Dio senza che egli ne sapesse nulla ottenevano per lui, da Roma, la nomina a prevosto del capitolo di Ginevra, la carica più prestigiosa della diocesi dopo quella del vescovo.” Il padre finì per cedere, pur dovendo rinunciare a tutti i sogni che aveva fatto per il figlio e Francesco, avendo già tutta la preparazione necessaria, dati gli studi di teologia che aveva compiuto in segreto, potè celebrare la sua prima messa il 21 dicembre del 1593, a ventisei anni. È utile a questo punto rendersi conto della situazione della diocesi di Ginevra, alla quale ormai Francesco appartiene. “Vescovo e Capitolo sono in realtà in esilio ad Annecy, perché la città è saldamente in mano ai calvinisti che ne hanno fatto la loro roccaforte. Anche solo a mettere piede a Ginevra, un prete cattolico rischia la vita. (…) Siamo in un’epoca in cui il diritto internazionale stabilisce che la fede segua le sorti della politica: in pratica una regione deve seguire la religione del suo principe. (…) Se si vuol riconquistare una terra alla fede cattolica, lo si può fare solo con le armi in pugno. (…) Francesco da un lato condivide la giurisprudenza del suo tempo di cui è un esperto; dall’altro, però, comprende che non saranno mai le armi a garantire la vera fede”. E se nel suo primo discorso dichiara che bisogna riconquistare Ginevra, aggiunge senza mezzi termini: “Con la carità bisogna abbattere le mura di Ginevra, con la carità bisogna invaderla, con la carità bisogna riconquistarla (…) Che il nostro accampamento sia l’accampamento di Dio”. Diceva ai preti del Capitolo “che l’eresia era comunque alimentata dai cattivi esempi dei cattolici, sopratutto degli ecclesiastici. E i cattivi esempi dovevano essere estirpati anzitutto proprio lì, in quel Capitolo.
La missione

L’occasione per mettere in pratica i suoi proposti gli venne quando in quegli anni tornò a far parte della diocesi la regione dello Chablais, a sud del lago Lemano, che era stata riconquistata dal duca di Savoia, Carlo Emanuele, dopo essere stata per quasi cinquant’anni in mano ai calvinisti. Su circa venticinquemila abitanti si calcolava la presenza di appena un centinaio di cattolici. L’evangelizzazione era a rischio della vita e quando il vescovo chiese dei volontari”che andassero “all’apostolica” (cioè senza l’appoggio di alcuna organizzazione né militare né ecclesiastica), si trovò davanti un muro di silenzio”. Allora Francesco si offrì e partì con un altro sacerdote e un servo che il Signore di Boisy, dopo aver invano tentato di dissuaderlo, gli mise al fianco. Per mesi i tre, dopo essersi spinti fino all’ultima fortezza cattolica, partivano alla mattina nelle campagne per poi tornare alla sera, celebrare la messa (che secondo gli accordi del duca di Savia, non poteva essere celebrata nello Chablais) e poi ripartire la mattina seguente. Il popolino della campagna, dopo decenni di predicazione calvinista, accoglieva i “papisti” con i peggiori insulti, con imboscate, violenze fisiche, minacce di morte e tentativi di metterle in atto. L’esperienza quotidiana sono porte chiuse, neve, freddo, fame, notti all’addiaccio, agguati … “Ma i rischi e le avventure sono solo la cornice di un lavoro paziente e geniale: poiché non è accolto, ed è difficile entrare in dialogo con gli abitanti della regione, Francesco scrive dei “Memoriali”. Sono dei foglietti settimanali nei quali affronta, dal punto di vista cattolico, le singole verità di fede, spiegandole in maniera semplice ed efficace. Silenziosamente li fa poi scivolare sotto le porte o li affigge sui muri delle strade. Ma lo fa con estrema serietà: dopo aver a lungo studiato la dottrina di Calvino per comprenderla a fondo e per dare risposte “vere”. Quando ha dei dubbi scrive al teologo Pietro Canisio 2) (…) che dall’altra parte del lago, in zona tedesca, sta facendo il suo stesso lavoro. È un’attività durata anni, che gli merita il titolo di “patrono dei giornalisti”. Le conversioni non sono molte, ma cessa l’ostilità, il pregiudizio, e nasce la curiosità, poi la simpatia. Finì per stabilirsi a Thonon, nella capitale dello Chablais, dove la sua attività si estese a macchia d’oli, fatta soprattutto di colloqui personali, di visite ai malati, di continua carità e di affabilità a tutta prova”. Alla fine “poté perfino parlare alla folla nei giorni di mercato. Lo ascoltavano anche per due ore di seguito. (…) Quanto a fondo e quanto lontano egli sia andato, nella sua opera di evangelizzazione, lo prova il fatto che riuscì perfino a recarsi a Ginevra a incontrare Teodoro Beza, successore di Calvino e lo condusse fino alla soglia della conversione, facendogli ammettere – con argomentazioni dolci, ma serrate – tutte le principali verità cattoliche”. In uno dei colloqui Teodoro “disse: “Voi (cattolici) invischiate le anime in troppe cerimonie e difficoltà: dite che le buone opere sono necessarie per la salvezza, mentre non sono altro che buona creanza”. Francesco gli ricordì la scena evangelica dell’ultimo giudizio (in cui Gesù parla delle opere di misericordia in favore dei poveri, degli affamati, dei carcerati ecc.) e chiese: “Se si trattasse solo di buona creanza, saremmo puniti così rigorosamente per non averle fatte?” Non riuscendo a rispondere, Beda diede in escandescenze, ma davanti alla compostezza del suo interlocutore si riebbe e chiese scusa. Anzi “scongiurò il signore di Sales di tornare spesso”. salotto si organizzava la rinascita religiosa della Francia e vi confluivano i movimenti religiosi più nuovi, provenienti dalla Spagna, dall’Italia, dalla Renania.” Fu a partire da questi incontri che “si fece strada la decisione di introdurre in Francia il Carmelo riformato da santa Teresa d’Avila (morta vent’anni prima)”. Le tre figlie della Signora Acarie entrarono in seguito nell’Ordine e la stessa Acarie, dopo la morte del marito, chiese di esservi ammessa come conversa e vi morirà nel 1618.
L’episcopato

18 dicembre 1602 Francesco venne consacrato vescovo. “Cominciò col riformare se stesso, scegliendo di essere un vescovo povero: casa in affitto, servitù ridotta all’indispensabile, mensa frugale. Gli onori che non poteva evitare li riteneva fatti alla Chiesa. (…) I problemi della diocesi non gli lasciavano respiro, ma aveva riservato per sé un apostolato specifico. Aveva chiesto ai suoi preti di indirizzare al suo confessionale soprattutto le persone colpite da malattie infettive o che suscitavano ribrezzo. (…) L’altro privilegio che pretendeva, perché “gli dava gioia”, era quello di spiegare il catechismo ai bambini.” Faceva percorrere da un giovane le strade della città, per chiamare a raccolta i ragazzi. “Succedeva però che la cattedrale si riempisse anche di adulti, anzi veniva ad ascoltarlo perfino la sua vecchia madre. ‘Signora – le disse un giorno sorridendo – mi fate distrarre quando vi vedo al catechismo con tutti i nostri bambini; perché siete proprio voi che l’avete insegnato a me!’.”
“Il nuovo vescovo non mancava né di decisione né di fantasia.” E lo si vide quando intervenne sulla tradizione di san Valentino. Era abitudine che in quella festa si tirassero a sorte i nomi dei ragazzi e delle ragazze, appaiandoli. Poi per tutto l’anno ognuno aveva il suo ‘valentino’ o la sua ‘valentina’ da accompagnare alle feste, alle danze, in passeggiata … L’anno dopo si cambiava. Ma la cosa era degenerata e nel gioco erano entrati anche adulti sposati che ne approfittavano. Francesco cominciò a intervenire nelle prediche, poi pubblicò un editto di proibizione e infine assegnò ai ragazzi un santo o una santa tirati a sorte, con una frase della Sacra Scrittura, che diventava la norma di condotta per quell’anno. All’inizio ci furono molti malumori e mormorazioni, ma poi i giovani finirono per amare e seguire il loro vescovo. “Francesco di Sales non era un moralista. Nella storia della Chiesa forse nessun altro santo é stato libero come lui nell’esprimere la propria impetuosa affettività. Le sue amicizie, anche femminili, le sue lettere, le sue preoccupazioni sembrano a volte quelle di un amante, tanto sono esplicite e calde. E tuttavia nessuno poté mai dubitare che in esse ci fosse qualcosa di ambiguo, tanto evidente era l’orientamento spirituale (che non vuol dire ‘incorporeo’!) di tutto il suo essere. Ma appunto per questo egli non era affatto disposto a vedere i suoi ragazzi giocare con la sorgente stessa della propria umanità e della propria responsabilità.”
L’episcopato di Francesco di Sales durerà un ventennio. Egli infatti muore nel 1622, a soli cinquantacinque anni. “La responsabilità episcopale gli consumava giorno per giorno le forze: la visita alle quattrocentocinquanta parrocchie della diocesi, anche alle più sperdute, nelle alte montagne, a cavallo o, più spesso, a piedi; la cura del clero che educava personalmente al ministero della predicazione e della confessione; la catechesi continuata al popolo; la riforma dei monasteri e dei conventi; le missioni diplomatiche alla corte di Torino e a quella di Parigi; i rapporti con la Santa Sede. Negli ultimi anni si sentiva talmente avvolto da un `groviglio di affari’ che gli capitava di sognare un eremo in cui ritirarsi, a vivere in preghiera.
Gli scritti: la carità e la santità

Pure, in quegli ultimi anni Francesco compose due libri che lo avrebbero consacrato Dottore della Chiesa, dopo averlo reso la figura più rappresentativa della sua epoca.” Sono l’Introduzione alla Vita Devota” e il “Trattato dell’Amore Divino”. Questi due “poveri libretti” come li definiva Francesco furono insieme un prodigio di sintesi e di novità: di sintesi perché ereditavano tutte le migliori dottrine spirituali del passato; di novità perché le consegnavano all’avvenire con nuova formulazione e nuovo respiro.” Il “Trattato dell’amore divino” nasce da un’idea “popolare”. “Qualche anno prima (a Francesco) era venuto in mente di scrivere una “Vita di santa Carità” in cui avrebbe riservato un posticino anche a una certa Pernette Boutey, un’umile valligiana, vedova, che aveva sopportato per anni un marito di pessimo carattere, aveva gestito un negozietto di mercerie ed era vissuta piena di amor di Dio e di carità con tutti. Francesco la considerò sempre una santa e pianse quando gli annunciarono la morte della “sua Pernette”. – Dio ,scriveva, l’ho incontrato tra le nostre più aspre e alte montagne, dove molte anime semplici lo amano e lo adorano in perfetta verità e semplicità, e i caprioli e i camosci saltano qua e là per gli erti ghiacciai, annunciando le sue lodi – (…) L’”Introduzione alla vita devota”, invece, Francesco la dedicò a una nobildonna, la signora di Charmoisy (…) per insegnarle ad amare Dio con tutto il cuore e con tutte le forze, anche in mezzo alle “convenienze” del mondo.”
“La Chiesa aveva sempre annunciato a tutti i fedeli la vocazione e il dovere della santità, ma di fatto questa santità sembrava possibile quasi soltanto a coloro che abbandonavano il mondo e si chiudevano in un chiostro, a una élite di anime raffinate e distaccate dalle contingenze della vita.) Ma ciò che più aveva impressionato Francesco “negli innumerevoli contatti con gli ambienti più diversi, era quell’anelito di santità che si poteva percepire dovunque. Nelle corti più mondane, come in quella di Parigi, gli era avvenuto di incontrare anime profondamente mistiche; nei salotti della nobiltà aveva visto fiorire movimenti di novità cristiana; amore appassionato per Dio aveva trovato nei bambini, in giovani fidanzati, tra i militari, tra la gente povera e incolta delle campagne, nelle baite sperdute tra le più alte montagne, nelle bottegucce degli artigiani (…) La “devozione” – nel linguaggio di Francesco – non è altro che la carità, l’amore di Dio, ma colto nel momento in cui mobilita ardentemente tutto l’essere e tutte le facoltà dell’uomo nel desiderio di aderire a Lui (…). Ma soprattutto essa genera un desiderio e un itinerario di santità, possibili ad ogni cristiano, in ogni circostanza. Si tratta solo di non avere “un cuore mezzo morto”, ma desideroso di rispondere a Dio, utilizzando i mezzi normali dell’esperienza cristiana, applicandosi ai doveri propri ad ogni “stato di vita”, purché si operi “con diligenza, fervidamente e prontamente”. Francesco non chiede atteggiamenti eccezionali, o ricerca del sublime, ma solo “un amore vivace”, capace di generosità: un ideale che tutti possono raggiungere se solo si lasciano opportunamente guidare.
In quell’inizio del secolo 17° era come se tutta la cristianità tirasse un sospiro di sollievo, perché l’alto ideale della sanità veniva liberato da ogni impacci, da ogni sovrastruttura, da ogni moralismo, ed era collocato – con stile semplice, affascinante, popolare – alla portata di tutti.

 

ALCUNE FOTO DELL’EVENTO A CASERTA:

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