Storie fantastiche dal cratere aquilano REAZIONE

di Luigi Fiammata

I biglietti da cinquanta, e da cento euro, si ammucchiavano sul tavolo. Erano un monte disordinato. Come un nido che aspettasse il suo cuculo.
Silvana, mi guardava, seduta di fronte a me. Gli occhi increduli. Forse spaventati.
Alla mia sinistra, Leonardo, teneva le carte da gioco chiuse, nelle mani. Guardava uno scaffale colmo di faldoni, e, come se stesse parlando con qualcun altro; non con noi, con voce leggera, sfottente quasi. Diceva:
– Rilancio di duecento. –
Alla mia destra, Enzo, deglutiva. Con difficoltà.
Dopo aver ascoltato Silvana lasciare il gioco, disse:
– Più cinquecento, ancora. –
– Ma se non hai più nulla… – Quasi strillava Silvana. Mettendogli una mano sul braccio.
Enzo mise una mano in tasca. Ne tiro fuori un foglio bianco, accuratamente piegato. E lo consegnò a Leonardo.
Che lo aprì, alzandosi in piedi e mettendolo sotto la lampada che pendeva sul tavolo, per leggerlo. C’era un silenzio sudato, intorno. Eravamo tutti convinti che Enzo avesse messo sul piatto, qualcosa di grosso. L’atto di proprietà della propria abitazione ad esempio. Silvana lo guardava fisso, come se si aspettasse uno sguardo ricambiato. Ma Enzo aveva il braccio ancora alzato, verso Leonardo, aspettando che gli restituisse il foglio, una volta letto, e sembrava che, per lui, non ci fosse nessun altro, nella stanza.
– Ma qui c’è scritto che sei pieno di metastasi… – disse Leonardo.
– Certo, ai polmoni. Così capisci che non mi importa perdere cinquecento o cinquecentomila euro. E giochi senza far storie, se, in questo istante ho finito i soldi qui con me. – Rispose Enzo. Togliendosi qualche goccia di rum dai baffi neri, con un movimento delicato delle dita.
Leonardo ripiegò il foglio. Lo consegnò a Enzo. E sedette, di nuovo.
– Va bene – disse Leonardo, con un sorriso – giochiamo. –

Sarebbe toccato a me, decidere se partecipare al gioco, o, ancora, rilanciare. Tutto nasceva dalla mia prima puntata, infatti. Ma, intorno a me, era diventato tutto buio. L’atteggiamento serpeggiante di Leonardo. Gli occhi tremanti di Silvana. Le parole gelate di Enzo. Tutto buio.
Sentivo la fronte bagnata del mio sudore appiccicoso. E un conato di vomito, salire dalla gola, fino al palato. Silenzioso, viscido.
Chiusi gli occhi. Misi le mani sulle ginocchia, e mi diedi slancio, per alzarmi dalla sedia. Non sentivo più nessun rumore. Tirai su dallo schienale della sedia la mia giacca, e la indossai, mentre mi dirigevo verso la porta di ingresso. Nelle orecchie, il rumore cupo della grandine sulla piana di Campo Imperatore.

Non ero neanche sicuro se qualcuno si fosse preoccupato di fermarmi. O se il gioco potesse continuare comunque, anche senza di me. Uscii dalla porta dell’ufficio, chiuso al pubblico, dato l’orario notturno, e iniziai a scendere le scale, al buio. Le scale di finto marmo di Tivoli del prefabbricato. Una scatola di cemento poggiata nel Nucleo Industriale di Pile. Senza fondamenta.
Nei pressi della Curia Arcivescovile. E della sua scatola di cemento prefabbricato, benedetta. Nel Nucleo Industriale di Pile. Forse senza fondamenta, dall’altro lato della strada.
Avevo l’auto parcheggiata sullo sterrato. Vicino ad uno pneumatico nato in mezzo alle erbacce. Alzai la testa. La luce dell’ufficio era ancora accesa. La mia presenza non era indispensabile.
E poi guardai il cielo. Buio come uno schermo spento. E, subito, pensai che Enzo, quel cielo, non l’avrebbe visto più.
Appoggiai la mano al cofano della mia vecchia Peugeot. Mi bastò aprire la bocca, e sentire il sapore acido e rancido della mia paura uscire fuori, con un ruggito piangente, prolungato. Di bava che schizzava sulle ruote e sulla carrozzeria nera. Non sentivo più il respiro. Era tutto fermo nello sterno. Un’apnea da viscere spremute, e sapore di sangue. Persino dal naso, mi usciva un muco fetido. Tremavo. Le gambe, piegate, come da un calcio improvviso dietro il ginocchio. Le lacrime, e ancora il ruggito; la paura che non trova uscita. La puzza. E in bocca un sapore inconsolabile. La tosse. Violenta. Sguaiata. Stavo attento a non mettere niente di me, con l’ultima razionalità che m’era rimasta in testa, tra la mia bocca e la terra. Mi sporgevo in avanti, tuffandomi senza cadere. Un salto in lungo del bolo. Senza rincorsa. Stavo anche per pisciarmi sotto. Non potevo controllare insieme tutti i muscoli.

Mi asciugai le lacrime con le dita. E la bocca con un fazzoletto di carta che conservavo nel cruscotto dell’auto.
Entrai dentro, e poggiai la schiena, prima, e poi la testa. E poi ancora, con immensa fatica, come se percorressi un ponte infinito, spostai in avanti la testa e la poggiai sulle mani attaccate al volante. La fronte era calda. E pulsava, la vena, sul lato degli occhi. Staccai la mano destra, e misi in moto. Marcia indietro.

Alla mia sinistra il torrente Raio era sprofondato dentro i sassi del fondale e nell’erba che cresceva alta. Sui margini, correva il metanodotto. Come una vena gonfia, ed estranea. A destra, subito, un bar.
Su un lampione, una bandiera italiana. Senza vento. Scolorita come un campionato mondiale di calcio sconfitto.
E scatole, e ancora scatole di cemento compresso, circondate da muri. E cancelli. E insegne al neon. Sgocciolanti. E finestre allineate, come loculi ancora vuoti. Scatole che inghiottivano la collina, spianata. E l’erba. Ridotta a monconi, passiti. Spinosi di polvere nera di tubo di scappamento.

Avevo aperto il finestrino, dell’auto, per lasciar entrare l’aria notturna. Che mi batteva sulla tempia, riscaldata dall’odore dell’asfalto. Tracciai la rotonda, vicino al centro commerciale, e salii sul ponticello che oltrepassa il torrente, e svoltai subito a destra. Mi correva a fianco il guardrail e, a sinistra, le altre scatole. Qualcuna sbreccata dal terremoto.
Al termine delle scatole, restava in piedi, spezzata, il tetto crollato a metà, una lunga crepa fino a terra, come un vetro infranto, una vecchia casa di pietra. Una casa contadina, cui qualcuno aveva costruito su un fianco, un’escrescenza di cemento e mattoni rinfusi, ora protesi nel nulla della scossa del sei aprile. La vegetazione, intorno cresce, ignorandola di disgusto.
Arrivai alla galleria della Mausonia, e chiusi il finestrino.

Entrai nel ventre della balena; cercavo l’uscita. Alla mia destra, il cemento arcuato della parete sudava acqua, che si appozzava sull’asfalto, in curva. Come una ferita perenne, infettata. Un pus nero.
Uscii, dalla galleria.
E, subito, alla mia destra, ancora, il prato era stato divorato da una distesa di pietrisco, nuda. Reticolata di recinti verdi, e terrapieni, in basso, che la sostenevano dal dislivello, di quella che, un tempo, era una piccola gola tra le colline. Verde, un tempo. E grigiastra, ora. Come una febbre.

Sotto la rotonda, a sinistra, la casa abbandonata, di pietra, forse una antica stalla, già sventrata dal tempo, prima del sisma, le trabeazioni in legno, essiccate come ossa al sole, era stata piallata dalle ruspe, e recintata, per essere ricostruita, magari in cemento armato di ferro.
Riaprii il finestrino.
E m’accorsi, che, in realtà, stavo guidando al buio, tenendomi lontano dai fari di automobili che procedevano in senso inverso al mio. Ma senza guardare nulla. Nella penombra riscaldata dai fari. Era la mia mente, che ricostruiva il paesaggio intorno. Inserendoci dentro le offese vigliacche. Come una malattia devastante. Come una ferita irrimarginabile. Suppurata.

Alla mia sinistra, in cima alla collina, due enormi ville in legno. Disegnate da un bambino che immagini la propria casa come un fumetto di paperi e topi. Una tumefazione con le antenne satellitari in cima.
Al termine della discesa, la casa fatta di soli mattoni, poggiati l’uno sull’altro, senza nulla che li tenesse insieme, eppure già col tetto.
Una scritta di vernice, dopo il terremoto, sbiadita, su un bandone di metallo rugginoso, avvertiva che era pericolante. Ora.
E, a sinistra, subito, nella campagna abbandonata, un’altra spianata di pietra e letame. Avvolta in un perimetro di metallo palizzato. C’erano camion, parcheggiati dentro, e rimorchi. E impalcature ritorte.
Alla mia destra, allo stesso modo, c’era una rivendita di automobili, lasciate a seccare sotto il cielo, in attesa di un acquirente.
E, ancora, passata la rotonda, verso Monticchio.
I campi non più coltivati. Estirpati. Con il pietrisco calcinato poggiato come il coperchio di un sarcofago sopra l’erba, e riempito, a destra e a sinistra, di materiale edile in vendita, sacchi di cemento, cubetti di pietra e porfido. Mattonelle.
L’aria era iniettata dell’ odore degli alberi abbattuti.

Enzo, era lontano, ora.
Era rimasto lungo quel sentiero, sul monte dietro Pizzoli, arrampicato verso la sorgente. Quando lo sentivo camminare dietro di me, col fiato pesante, dentro il caldo del pomeriggio di maggio.
La memoria mi separava da lui, mentre, in salita, guardavo verso le nuvole altissime, in cielo, bianche. Che galleggiavano.
Ed ero solo, ora.
Fermo con l’auto nello slargo rotondo di Monticchio. Poco prima del corridoio di tubi metallici, che separava la casa, da una parte, dalla chiesa dall’altra, restringendo ancor più la stradina che portava verso Fossa.
Il rumore del motore era leggero. Come un respiro prima del sonno. Le luci gialle dei lampioni sembravano ronzare.

Inserii di nuovo la marcia, e mi diressi verso la strettoia che portava al Parco delle Arti, e ai cassonetti di immondizia, tracimanti, dove fermai l’auto. E scesi.

Sul muro di una casa, lì, sull’angolo, decine e decine di rose si arrampicavano.
E iniziai a staccare alcuni fiori. Con le mani nude. Spezzando a strattoni il verde filamentoso dei rametti. Le dita graffiate, di solchi sanguinanti. Le spine si difendevano.
Ne rubai una dozzina, più o meno. Mi sentivo le mani spezzate.
Sentivo i cani abbaiare. Forse vicino, forse lontano.
Poggiai tutto sul sedile posteriore dell’auto e ripartii, sudato. E sporco.

Milena, era una delle poche persone tornate a vivere in centro. Abitava in una casa, bassa. Ad un solo piano. Il portoncino di legno marrone s’apriva su un piccolo scalino di cotto brunito dal sole e dai passi, un attimo prima dei ciottoli di pietra della strada.

Le lasciai lì, le rose.
Fino al mattino.
Forse, un giorno, avrei trovato il coraggio di dirle che ero stato io.
Quella notte, quell’alba che ancora non arrivava.
Per difendermi dalla morte nell’unico modo che sapevo trovare.

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