Vangelo di Domenica 29 Aprile 2018

 LA PROFONDITÀ DELL’ESISTENZA
DOMENICA 29 APRILE 2018
LA PROFONDITÀ DELL’ESISTENZA
Vangelo di Giovanni 15, 1-8

Gesù disse ancora: ‘Io sono la vera vite. Il Padre mio è il contadino. Ogni ramo che è in me e non dà frutto, egli lo taglia e getta via, e i rami che danno frutto, li libera da tutto ciò che impedisce frutti più abbondanti. Voi siete già liberati grazie alla parola che vi ho annunziato. Rimanete uniti a me, e io rimarrò unito a voi. Come il tralcio non può dar frutto da solo, se non rimane unito alla vite, neppure voi potete dar frutto, se non rimanete uniti a me. ‘Io sono la vite. Voi siete i tralci. Se uno rimane unito a me e io a lui, egli produce molto frutto; senza di me non potete far nulla. ‘Se uno non rimane unito a me, è gettato via come i tralci che diventano secchi e che la gente raccoglie per bruciarli. Se rimanete uniti a me, e le mie parole sono radicate in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. La gloria del Padre mio risplende quando voi portate molto frutto e diventate miei discepoli.

Gesù di Nazaret vive continuamente le relazioni con le persone e con tutte le espressioni della vita che ci circondano: nel suo linguaggio, nelle magistrali parole che comunica sono presenti: la terra, le sementi, le spighe mature pronte per la mietitura, il lavoro del contadino, il sole, le nubi, il vento, la pioggia; il lago di Tiberiade, i pesci, le pecore, gli uccelli del cielo, i fiori dei campi; gli alberi: il fico, le viti alle quali si riferisce la parabola del Vangelo di questa domenica (Giovanni 15,1-8).
Per lungo tempo troppo poco e quasi mai si sono evidenziate questa sensibilità e questa attenzione contemplativa di Gesù; questo ha indubbiamente favorito uno spiritualismo astratto, appunto segregato dalla vita delle persone e di tutti gli esseri viventi.
Gesù si paragona alla vera vite e alla esigenza profonda da parte nostra di essere tralci uniti alla vite per poter portare frutti abbondanti; nel caso contrario si diventa rami staccati che diventano secchi e vengono tagliati e bruciati.
“Io sono la vite, voi siete i tralci. Se uno rimane unito a me e io a lui, egli produce molto frutto, senza di me non potete fare nulla”.
Il pericolo dell’interpretazione di questa parabola è la riduzione della fede a intimismo personale e di gruppo che si rafforza proprio nell’esclusività e nel ritirarsi dal coinvolgimento con le vicende umane, con i drammi, le attese, le speranze dell’umanità.
L’appartenenza ad un gruppo di spiritualità, alla Chiesa stessa può essere appunto catturata dalla logica di una rassicurante estraneazione dalla storia.
Pare di percepire come le parole di Gesù ci conducano a considerare profondamente quella indispensabile interiorità che ci fa sentire persone, soggetti della nostra vita.
Questa dimensione non può essere sostituita, anzi viene danneggiata dal rapporto ossessivo con le cose, con la materialità; si nutre infatti sulle relazioni con un tu, con altri tu personali.
Si osserva infatti come l’attenzione continua alle cose e alle dimostrazioni dell’essere nell’apparenza, nel potere, nella ricchezza, nell’efficienza esaltata, nella supremazia proclamata offuscano fino ad ignorare questa indispensabile dimensione interiore che nelle relazioni si nutre nell’amore e si esprime con l’amore.
Gesù di Nazaret che in questo Vangelo si paragona alla vite e propone a noi di essere tralci vitali uniti a lui ha camminato guardando continuamente le persone in questa dimensione interiore essenziale nella vita e che lui ha vissuto con profondità e ricchezze uniche.
La nostra compresenza vitale con lui ci porta di per sé a non considerare il baricentro della nostra vita in noi stessi, o quello della comunità in se stessa ma invece fuori, anche dove o proprio dove non c’è la stessa esperienza; dove ci sono la sofferenza, la tribolazione, il bisogno, l’attesa, nelle periferie geografiche ed esistenziali di cui ci parla così spesso papa Francesco.
I frutti concretizzano l’amore: le parole se profonde, autentiche, comunicative sono importanti; diventano credibili se diventano concreta prossimità nelle diverse situazioni, nei vari ambiti.
Per questo S. Paolo conclude l’inno all’amore affermando che sono tre le “cose” che veramente contano: fede, speranza e amore, ma più grandi di tutti è l’amore. Perché senza amore la fede diventa spiritualismo astratto, istituzione religiosa pesante e indisponente; solo l’amore la spinge a diventare concreta prossimità; quando la speranza di affievolisce può riprendersi solo se incontriamo i frutti dell’amore che incoraggiano e sostengono.

Gesù disse ancora: ‘Io sono la vera vite. Il Padre mio è il contadino. Ogni ramo che è in me e non dà frutto, egli lo taglia e getta via, e i rami che danno frutto, li libera da tutto ciò che impedisce frutti più abbondanti. Voi siete già liberati grazie alla parola che vi ho annunziato. Rimanete uniti a me, e io rimarrò unito a voi. Come il tralcio non può dar frutto da solo, se non rimane unito alla vite, neppure voi potete dar frutto, se non rimanete uniti a me. ‘Io sono la vite. Voi siete i tralci. Se uno rimane unito a me e io a lui, egli produce molto frutto; senza di me non potete far nulla. ‘Se uno non rimane unito a me, è gettato via come i tralci che diventano secchi e che la gente raccoglie per bruciarli. Se rimanete uniti a me, e le mie parole sono radicate in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. La gloria del Padre mio risplende quando voi portate molto frutto e diventate miei discepoli.

Gesù di Nazaret vive continuamente le relazioni con le persone e con tutte le espressioni della vita che ci circondano: nel suo linguaggio, nelle magistrali parole che comunica sono presenti: la terra, le sementi, le spighe mature pronte per la mietitura, il lavoro del contadino, il sole, le nubi, il vento, la pioggia; il lago di Tiberiade, i pesci, le pecore, gli uccelli del cielo, i fiori dei campi; gli alberi: il fico, le viti alle quali si riferisce la parabola del Vangelo di questa domenica (Giovanni 15,1-8).
Per lungo tempo troppo poco e quasi mai si sono evidenziate questa sensibilità e questa attenzione contemplativa di Gesù; questo ha indubbiamente favorito uno spiritualismo astratto, appunto segregato dalla vita delle persone e di tutti gli esseri viventi.
Gesù si paragona alla vera vite e alla esigenza profonda da parte nostra di essere tralci uniti alla vite per poter portare frutti abbondanti; nel caso contrario si diventa rami staccati che diventano secchi e vengono tagliati e bruciati.
“Io sono la vite, voi siete i tralci. Se uno rimane unito a me e io a lui, egli produce molto frutto, senza di me non potete fare nulla”.
Il pericolo dell’interpretazione di questa parabola è la riduzione della fede a intimismo personale e di gruppo che si rafforza proprio nell’esclusività e nel ritirarsi dal coinvolgimento con le vicende umane, con i drammi, le attese, le speranze dell’umanità.
L’appartenenza ad un gruppo di spiritualità, alla Chiesa stessa può essere appunto catturata dalla logica di una rassicurante estraneazione dalla storia.
Pare di percepire come le parole di Gesù ci conducano a considerare profondamente quella indispensabile interiorità che ci fa sentire persone, soggetti della nostra vita.
Questa dimensione non può essere sostituita, anzi viene danneggiata dal rapporto ossessivo con le cose, con la materialità; si nutre infatti sulle relazioni con un tu, con altri tu personali.
Si osserva infatti come l’attenzione continua alle cose e alle dimostrazioni dell’essere nell’apparenza, nel potere, nella ricchezza, nell’efficienza esaltata, nella supremazia proclamata offuscano fino ad ignorare questa indispensabile dimensione interiore che nelle relazioni si nutre nell’amore e si esprime con l’amore.
Gesù di Nazaret che in questo Vangelo si paragona alla vite e propone a noi di essere tralci vitali uniti a lui ha camminato guardando continuamente le persone in questa dimensione interiore essenziale nella vita e che lui ha vissuto con profondità e ricchezze uniche.
La nostra compresenza vitale con lui ci porta di per sé a non considerare il baricentro della nostra vita in noi stessi, o quello della comunità in se stessa ma invece fuori, anche dove o proprio dove non c’è la stessa esperienza; dove ci sono la sofferenza, la tribolazione, il bisogno, l’attesa, nelle periferie geografiche ed esistenziali di cui ci parla così spesso papa Francesco.
I frutti concretizzano l’amore: le parole se profonde, autentiche, comunicative sono importanti; diventano credibili se diventano concreta prossimità nelle diverse situazioni, nei vari ambiti.
Per questo S. Paolo conclude l’inno all’amore affermando che sono tre le “cose” che veramente contano: fede, speranza e amore, ma più grandi di tutti è l’amore. Perché senza amore la fede diventa spiritualismo astratto, istituzione religiosa pesante e indisponente; solo l’amore la spinge a diventare concreta prossimità; quando la speranza di affievolisce può riprendersi solo se incontriamo i frutti dell’amore che incoraggiano e sostengono.
Fonte Centro Balducci

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